28 Aprile 2024

Quando incontrai l’Italia: Tratto da “La mia terza cuccìa” di Pasquale Carelli

di Pasquale Carelli

Avevo quattro o cinque anni ed ero un apolide felice; felice perché non provavo alcun disagio politico o sociale del non far parte di un popolo: ero assolutamente e beatamente all’oscuro del fatto che il paese e noialtri che ci stavamo dentro appartenessimo ad un assai più vasto territorio chiamato Italia.

L’impatto con la Patria fu di natura cromatica: il fiocco tricolore che i più grandicelli, già scolari, sfoggiavano al colletto del grembiule. Quella composizione di colori mi attraeva tanto che se l’avesse saputo De Amicis mi avrebbe trovato un posticino nel suo libro Cuore. Ma a quel tempo lo scrittore era già morto da un pezzo; così, io persi l’occasione di essere immortalato e De Amicis si sottrasse all’errore di scambiare per sublime precoce patriottismo un infantile sentimento di invidia: perché io desideravo il fiocco tricolore alla stregua di un bambino di oggi che vorrebbe per sé la maglietta di Ronaldo indossata da un altro. Per la cronaca, e spero non per la magistratura, confesso soltanto ora, a distanza di moltissimi anni, che se in un brumoso mattino autunnale un mio cugino si presentò a scuola senza fiocco al colletto, l’autore del furto fui io. Oggi, oltre alla consapevolezza che il reato è ormai andato in prescrizione, ho anche la concreta speranza di essere compreso e perdonato sia da mio cugino che dal resto del popolo italiano: più passano gli anni, e più posso notare che non ci si fa nemmeno più caso ai fiocchi tricolori che scompaiono dal nostro Paese.

Poco dopo il furto, incontrai l’Italia… cartografica. Lei era appesa al muro della cucina, ad un palmo di distanza dal Calendario di Frate Indovino, ed io le stavo di fronte, ogni mattina, con in mano la ciotola del latte. Devo dire che tale situazione non era ottimale per la conoscenza integrale della Penisola, perché accadeva puntualmente che essa si riducesse alla mia osservazione man mano che bevevo, a cominciare dalla Sicilia. Sicché, alle ultime sorsate di latte, quello che rimaneva sopra il bordo della tazza era la catena delle Alpi.

Chissà per quanto tempo mi domandai cosa fosse quella cosa lunga, storta e piena di parole; avrei potuto farmelo spiegare da qualcuno di casa, ma è probabile che, una volta finita la colazione, avessi troppa fretta di correre fuori a giocare; oppure, ma questo non potrei giurarlo, un acerbo istinto mi diceva già allora che l’Italia era ed è inspiegabile: o la si capisce da soli o si rimane per sempre ignoranti.

Ma arrivò il giorno in cui mio padre, uomo preciso e ordinato come le traversine dei binari (non per niente era caposquadra delle gloriose Ferrovie dello Stato), decise di rivelarmi dove mi era capitato di nascere. Prese la cartina appesa al muro e la distese sul tavolo, non senza aver prima controllato che il piano di marmo fosse asciutto e pulito; fatto questo, esordì con voce didattica e solenne: “Questa è l’Italia!… e qua c’è Roma!…” Iniziò dalla capitale per una questione di politica e di ordine, non certo di sentimenti: il suo cuore, anche se abbondantemente postunitario, continuava a battere tutto al sud; infatti, trasferì tosto l’indice in pieno mar Tirreno e lo fece approdare, con un sospiro, nel golfo partenopeo. Mi indicò Napoli e, sempre col dito, ci tracciò intorno un bel cerchio generoso, quindi scese a Salerno e ci batté sopra una nocca per farmi ben entrare in testa che quella era la città capoluogo della nostra provincia. Poi l’unghia riprese il mare per navigare sotto costa, scrupolosamente rispettando promontori e insenature calabresi, fino ad attraversare lo stretto di Messina e guadagnare la Sicilia occidentale.

“Palermo!” esclamò allora il genitore illuminandosi come un Ulisse approdato ad Itaca. “E’ qua che ho fatto il soldato!” E siccome ci teneva a trasmettermi una più approfondita conoscenza della città, ordinò a mia madre di andare a prendere, nel secondo cassetto del comò, il-libretto-delle-vedute. Il libretto delle vedute, che in effetti era una serie di cartoline di Palermo collegate ‘a fisarmonica’, fu uno degli oggetti più cari a mio padre e, appunto per questo, a me più inaccessibile: potevo prenderne visione solo in sua presenza e con mani rigorosamente lavate. Nonostante il divieto, il libretto di Palermo fu per anni il testo più consultato in casa nostra.

Ritornando a quella prima lezione di geografia, anche per allontanare da mio padre sospetti di bieco terronismo, ricordo con chiarezza che mi presentò pure Milano, Torino, Genova, Venezia, Firenze, Bologna e, quasi se ne dimenticava, la Sardegna. Alla fine, per sincerarsi di non aver perso tempo, cominciò con le domande: “E noi, noi dove stiamo?” Io puntai il dito dalle parti di Trieste, forse sconfinando anche in territorio slavo. “Più sotto!” esclamò lui con voce irritata: centrai in pieno la penisola istriana.

Mio padre, preoccupato dal grossolano errore che di certo attribuiva a precoce fessaggine, mi stese uno scapaccione e poi rimase a pensare; alla fine, prese una matita e tracciò un circoletto sulla cartina, circa a metà strada tra Agropoli e Sapri: da allora in poi non l’ho mai più dimenticato che il nostro paese si trovava (e si trova) là dentro.

Da quel giorno cominciai a dedicare alla cartina degli sguardi più interessati, e l’interesse si fuse man mano col gusto del gioco; così imparai i nomi di molte città, sempre sotto la guida paterna. Ma il tutto era un mero esercizio di memoria, perché non riuscivo a capire cosa in effetti rappresentasse quella cartina. Per spezzare una lancia a favore della mia lentezza, devo dire che fino ad allora non ero mai uscito dalla vallata del nostro paese, e da ciò mi derivava un disastroso senso delle proporzioni. Addirittura non mi rendevo ben conto di come potessimo entrare tutti quanti in quel circoletto che mio padre aveva tracciato per delimitare il nostro paese; e il dubbio si trasformava in allarmante preoccupazione tutte le volte che veniva a trovarci una nostra comare che superava il quintale di peso.

Comunque, dopo alcuni mesi di questi originali studi geografici, conoscevo a memoria i nomi di molte città e, per dare al gioco un aspetto più dinamico, immaginavo di essere il re del Circoletto, poi di Salerno, poi di tutta la provincia e quindi dell’intera regione. Ma non mi bastava; come spesso capita in questi casi, cominciai ad invadere le terre circostanti, fino a quando un giorno m’incoronai re di tutta l’Italia, ma senza usurpare nessun trono, perché il legittimo proprietario della Corona l’avevano già fatto fuori da qualche anno.

Regnai a lungo e incontrastato su quel virtuale universo racchiuso nella cartina, convinto che nient’altro di considerevole esistesse al di fuori di quel rettangolo di terra e di mare. Figuratevi perciò la mia meraviglia di quando… scoprii l’America; cioè l’esistenza di altra terra e di altro mare al di fuori del mio dominio. La notizia del Nuovo Continente mi giunse sotto forma di pacco, spedito a casa nostra da una zia colà emigrata. Con sgomento, venni a sapere che questa America era infinitamente più estesa e più ricca della mia Italia; la prima cosa a cui andai a pensare fu a quanto grande e potente fosse il re di quella terra: almeno quanto l’invidia di un piccolo monarca come me.

Però, dopo l’apertura del pacco, la mia delusione e la mia invidia andarono pian piano stemperandosi: alla terza pallina di cioccolato ripiena di noccioline tritate, pensai che soltanto un re buono e generoso potesse esportare quelle leccornie, e non trovai niente di umiliante in una eventuale alleanza con il suo Paese. Quando poi scoprii le gomme da masticare, arrivai addirittura ad auspicare per la mia piccola Italia anche un dignitoso rapporto subalterno con la Grande America. Questa, mi parve subito un’intuizione da monarca lungimirante: ignoravo del tutto che la politica italiana di quei tempi aveva già abbondantemente intuito.

Comunque, se fino ad allora ero stato re d’Italia soltanto per gioco, grazie al pacco, raggiunsi un livello di considerazione quasi imperiale presso i miei compagni; perché, in cambio di qualche gomma da masticare, acquistai potere e onore, entrambi duraturi grazie alle caratteristiche organolettiche del bene elargito: uno chewing gum, a quel tempo, resisteva anche una settimana sotto i nostri denti. A conti fatti, potrei dire che durai certamente meno di Augusto ma più a lungo di qualche primo ministro dell’ancora giovane Repubblica Italiana.

Ma ritorniamo alla geografia. Il pacco americano allargò smisuratamente i miei orizzonti conoscitivi, e arrivai al concetto di mondo poco prima di iniziare le scuole, finalmente legittimo proprietario del fiocco tricolore. Intanto, la cartina della cucina si era come rimpicciolita e invecchiata, perciò sfigurando di lato al Calendario di Frate Indovino; ma bisogna pur dire che quest’ultimo aveva il notevole vantaggio di essere rinnovato ogni anno, mentre la cartina rimaneva sempre quella. E’ molto probabile che dovetti pensare anche ad un eventuale rinnovamento dell’Italia appesa al muro, ma evidentemente non ci riuscii per mancanza di mezzi; perciò, la mia Italia, oltre che lunga, storta e piena di parole, rimase anche ingiallita e malandata; per questo, ancora oggi, quando sento dire che l’Italia non cambia mai non m’indigno ma m’intenerisco: in fondo, l’unica Italia che amo veramente è quella della mia vecchia cartina.           

Un giorno, il maestro ci disse che l’Italia aveva la forma di uno stivale. Compresi e apprezzai la somiglianza, ma al contempo obiettai che essa escludeva irrimediabilmente la Sicilia e la Sardegna, per non parlare delle isole minori. I compagni di classe condivisero i miei dubbi, ragion per cui il maestro fu ancora meno felice dell’osservazione: la prese come un attentato alla sua autorità. Ma siccome era un uomo accomodante e concreto esclamò: “Ma che ci azzecca!” L’espressione ebbe un effetto oratorio formidabile, perché i compagni di classe scoppiarono in una risata, io mi trovai in nettissima minoranza e il maestro si riprese con gli interessi la sua autorità. Da quella volta imparai che quando uno dice ma-che-ci-azzecca significa che ha vinto lui, e che è venuto il momento di cambiare argomento.

Ma noi non cambiamo argomento, e diciamo che quella di allora era un’altra Italia, era come un’immensa bandiera dai colori vivaci e puliti, anche se si lavava tutto a mano e col sapone Scala. E questo immenso drappo, profumato di bucato, avevo la sensazione che mi avvolgesse e mi tingesse tricolore la pelle e anche sotto la pelle: stavo assorbendo l’orgogliosa coscienza di essere italiano.

E l’orgoglio subì uno straordinario impulso quando appresi che in un passato non remoto avevamo combattuto due guerre di quelle grandi: la prima contro gli austriaci; e che li avessimo stracciati me lo spiegavo facilmente confrontando l’estensione geografica dell’Austria con quella dell’Italia. Ma l’inferiorità territoriale e demografica del nemico non mitigò in me l’odio marziale: con sconfortante delusione appresi che una partita di calcio fra le due nazionali si era conclusa con un pareggio a reti inviolate e non, come auspicavo, con uno spargimento di sangue asburgico.

Per quanto riguarda la seconda delle nostre grandi guerre, in tutti gli anni di scuola non riuscii mai a saperne il risultato finale. Dovetti raggiungere la maggiore età per apprendere che, da un certo punto di vista, avevamo vinto pure quella; anzi, siccome quel punto di vista teme che potremmo dimenticarcelo, ogni anno la rifacciamo e la rivinciamo: basta aspettare che arrivi il Venticinque aprile.

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