27 Luglio 2024

di Francesco Sampogna

Enrico Dalfino, ricorda la moglie, tornava a casa quasi ogni giorno con le tasche piene di bollette da pagare. Gliele portavano al Comune, nella sua stanza di sindaco, che era sempre aperta a tutti, i tanti baresi che non riuscivano a pagarle. Questo era Enrico Dalfino, illustre docente di Diritto Amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, democristiano, sindaco di Bari dall’agosto del 1990 a dicembre 1991.

A raccontare quei giorni di vent’anni fa è la compagna di una vita intera di Enrico Dalfino, sua moglie Anna, pianista, impegnata quotidianamente nella cura dei cani randagi. Insieme da quando lei aveva 14 anni e lui 16 e mezzo, si sono sposati nel 1963, hanno avuto due figli, Giuseppe e Lidia, e sono rimasti accanto fino all’ultimo giorno di vita di Enrico, scomparso il 24 agosto del 1994 per un male incurabile.
Signora Dalfino, quale fu la prima reazione di suo marito alla notizia dello sbarco?

«Andò subito al porto, prima ancora che la Vlora sbarcasse. A Bari non c’era nessuno del mondo istituzionale, erano tutti in vacanza, il prefetto, il comandante della polizia municipale, persino il vescovo era fuori. Quando uscì di casa però non immaginava quello a cui stava andando incontro. Dopo qualche ora mi telefonò dicendomi che c’era una marea di disperati, assetati, disidratati, e aveva una voce così commossa che non riusciva a terminare le frasi. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva quando tornò a casa, alle 3 del mattino dopo. “Sono persone” – ripeteva – “persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza”».

Così però non la pensavano il governo e soprattutto l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che etichettò il sindaco di Bari come “cretino” e pretese delle scuse proprio per il suo comportamento umanitario.
«Mio marito non accettava che lo stadio della Vittoria, dove furono stipati gli uomini albanesi (perché per fortuna le donne e i bambini lui era riuscito a sistemarli in centri di accoglienza), fosse trasformato in un lager. Le parole di Cossiga lo ferirono profondamente. Eravamo insieme quando le sentì per la prima volta al tg. Diventò paonazzo e gli si gonfiò la vena che aveva sulla tempia, ma non polemizzò, non era nel suo stile. Proprio dalle pagine della “Gazzetta” decise di rispondere a Cossiga. “Quando saprò di cosa devo chiedere scusa, se questo mio comportamento sarà riprovevole sul piano etico e sul piano giuridico, certamente chiederò scusa” – disse».

Nell’estate del ’92 voi andaste a Pian di Cansiglio, nella residenza estiva di Cossiga, perché il sindaco e il presidente dovevano incontrarsi. Cosa accadde lì?

«Fu una scelta di Enrico che io non condivisi. Io e i ragazzi rimanemmo ad aspettare in giardino e dopo un’ora circa li vedemmo venirci incontro sottobraccio. Quando furono vicini io non mi alzai, come l’etichetta impone quando si è al cospetto di un capo di Stato, e il mio sguardo era piuttosto eloquente. Cossiga capì che io non avevo ancora mandato giù – e non lo farò mai – il suo comportamento nei confronti di Enrico, e mi disse:Mi spiace, ma è stato un fatto di Stato”».

La ragione di Stato che non piegò il sindaco Dalfino ma che lo segnò profondamente e decretò la fine della sua vita politica.

«Enrico Dalfino era un politico scomodo, perché leale. Era troppo onesto quindi pericoloso per l’establishment politico, ma non per la gente comune. Io conservo ancora più di quattromila telegrammi arrivati in quei giorni del ’91 da tantissimi italiani che ringraziavano il sindaco di Bari per l’umanità dimostrata, per aver fatto dell’Italia la terra dell’accoglienza. Per lui, al primo posto, in ogni circostanza, c’era la dignità delle persone, e di ogni cosa lui voleva “conoscere”, era questa la sua forza. Tutto il clamore suscitato dalla vicenda dell’arrivo degli albanesi a Bari fu la scusa che i suoi stessi alleati usarono per farlo fuori, così lui fu costretto a dimettersi da sindaco e non riuscì a diventare senatore per una manciata di voti. Fu allora che cominciò a stare male, anche se non lo dava a vedere, perché lui era così: venivano prima gli altri, e poi se stesso».

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