16 Aprile 2024

Rubrica: «Le interviste impossibili» dello scrittore Pasquale Carelli

Le interviste impossibili dello scrittore Pasquale Carelli a personaggi straordinari che hanno lasciato tracce indelebili nell’arte, la storia, la ricerca e la letteratura.  

Totò

Incontro Totò a Spaccanapoli, in una bella domenica di primavera in cui il cielo sembra un’enorme maglietta della squadra del Napoli, appena lavata e stirata, distesa da piazza Garibaldi a Capodimonte.

Il principe del quartiere Sanità con una mano si tiene la bombetta come una zuppiera in attesa del ragù domenicale e con l’altra regge in abile equilibrio una guantiera di sfogliatelle appena comprate alla pasticceria Scaturchio. E’ un’immagine così poetica che quasi quasi mi dispiace di rovinarla con la richiesta di un’intervista; ma è lui stesso che mi fa: “Se tieni intenzione di intervistarmi, levatelo dalla testa: Peppino mi ha invitato a pranzo e non posso presentarmi in ritardo, quello ci tiene alla puntualità.”

“Allora, se permettete, vi accompagno; non perderete tempo: vi farò le domande strada facendo.”

“Va bene, ma ricordati di essere breve e circonciso.”

Dopo aver sorriso per il gioco di parole dedicatomi, vengo subito alla prima domanda: “Maestro, a vostro giudizio, qual è la differenza tra la Napoli di oggi e quella dei vostri tempi?”

Lui si ferma di colpo, facendo pericolosamente oscillare le profumate sfogliatelle, mi guarda e mi dice: “Questa è una domanda che potrebbe guastarmi il pranzo domenicale; ma dal momento che me l’hai fatta al punto giusto, non posso sottrarmi ad una citazione che cade come il cacio sui maccheroni.”

“Non vi capisco: che c’entra il cacio sui maccheroni?”

“Adesso ti spiego,” dice lui mettendo la bombetta in testa e passando la guantiera nell’altra mano. “Come si chiama questo edificio religioso alla nostra sinistra?”

“E’ il monastero di Santa Chiara, maestro.”

“Ecco, questo è il punto giusto, e il cacio sui maccheroni è un’immortale canzone che…”

“Ah ho capito!… voi vi riferite a… munaster’’e santa Chiara, tengo ’u core scuro scuro…

Mi ferma mettendomi la mano davanti alla bocca con un’espressione di disgusto.

“A prescindere dal fatto che sei così stonato che pure le sfogliatelle si sono tappate le orecchie,” mi rimprovera lui impietoso, “i versi che volevo citare io vengono dopo.” Volge lo sguardo alle pietre severe del monastero e risponde alla mia domanda cantando quasi con prudenza: “…penso a Napule comm’era, penso a Napule comm’è…” E tace, quasi che la Napule comm’è gli sia rimasta in gola di traverso, come una spina di baccalà.

Mi sembra pure di aver sentito un piccolo tonfo sulla guantiera delle sfogliatelle; abbasso lo sguardo, e sulla lucida carta della confezione intravedo il tremolio di una liquida perla: appena il tempo di coglierne un guizzo tra il rosa e l’argento che se ne scivola malinconica per perdersi tutta sul bordo dell’involucro, tagliando di traverso la scritta antica pasticceria

“Stamattina c’è un sole troppo forte per la mia vista,” dice allora Totò, e cava dal taschino gli occhiali affumicati inforcandoli come un ladro: forse pensa che farsi vedere con gli occhi umidi, in una così incoraggiante domenica di primavera, possa guastargli la reputazione di principe della risata.

Allora, per sdrammatizzare, vengo a una domanda che ritengo meno impegnativa: “Maestro, qual è il vostro pensiero sulla comicità?”

“La comicità?… La comicità è una cosa seria, giovanotto!… e posso dichiarare, seduta stante, che in certi momenti può diventare necessaria come il pane…”

“Avete ragione,” faccio io, poi maldestramente aggiungo: “Meno male che anche in questi nostri tempi così difficili ci sono ancora gli attori comici; grazie a loro, dimentichiamo per qualche ora il disagio che sta attraversando non solo Napoli ma l’intera nazione…”

“E chi sarebbero questi attori comici che ci fanno dimenticare i guai?” mi chiede lui fermandosi.

“Ce n’è una schiera, maestro; credo che non ce ne siano mai stati tanti come in questo periodo.”

“Tu dici, una schiera di attori comici?… ma che esagerazione!” esclama con un moto di collera squisitamente interiore, ma che tuttavia gli attraversa le membra facendo tremare la guantiera delle sfogliatelle; poi si affretta a spiegare: “Ti devo dire che oggi ne esistono sì e no due o tre che possono definirsi attori comici: il resto fa più piangere che ridere…”

“Ma come, maestro, ne salvate solamente due o tre? Eppure, il genere dei film e degli spettacoli prediletti dagli italiani è quello comico.”

“E che significa? Pure tu credi che la cassetta sia una specie di Vangelo?… Pure tu ritieni che quanta più gente vada a vedere un film o uno spettacolo tanto più il film e lo spettacolo siano di qualità? Questa, bello mio, è una colossale svista artistica, che si verifica per il semplice fatto che il gusto del pubblico ormai se ne è sceso così in basso che la gente insegue la risata facile, a buon mercato, che non fa lavorare il cervello. Quello che tu dici è un pubblico affetto da miopia, un miopia culturale che colpisce non solo il senso dell’umorismo ma anche lo spirito, i sentimenti, addirittura la buona creanza…”

“Da quello che vi sento dire, credo che voi ci andiate molto poco al cinema.”

“L’ultima volta che ci sono stato, a vedere un cosiddetto film comico, fu qualche anno fa, a Natale; ci andai perché avevo letto sul giornale che il protagonista veniva considerato il mio erede artistico…”

“Ho capito di quale comico parlate. E che ne dite, maestro, lo considerate anche voi il vostro erede artistico?”

“Lo considero così erede che alla fine del primo tempo, dopo aver visto una catena di stupidaggini condite generosamente da maleparole, non ce la feci più; mi alzai in piedi, presi l’ombrello e il cappello, e gridai all’indirizzo di questo cosiddetto mio erede artistico: ma mi faccia il piacere!”

Inveisce con tanta energia contro l’improbabile emulo della sua arte che le sfogliatelle se la vedono davvero brutta: sono io che acchiappo al volo la guantiera prima che si spiaccichi sul selciato della piazza del Gesù. Comunque, lo scampato pericolo agisce da sedativo, e il principe si ricompone e aggiunge: “Da allora, non ho messo mai più piede in un cinema; quando mi voglio divertire, mi vado a fare lo scopone scientifico con Peppino, Eduardo e Nino Taranto. Oppure, quando proprio voglio farmi quattro risate, mi guardo una trasmissione politica…”

“Come? Per farvi quattro risate, voi guardate le trasmissioni politiche? Ma là ci sono i politici, mica i comici.”

“Giovanotto, io di certe cose me ne intendo e, dall’alto della mia competenza, posso affermare che una gran parte dei nostri politici ha sbagliato mestiere…”

“Secondo voi, potevano fare i comici?” gli chiedo io sbalordito.

“Non potevano, dovevano fare i comici,” mi corregge perentoriamente. “E ne sono così convinto che, quando li vedo esibirsi, mi chiedo sempre: ma è possibile che nessuno si accorga di qual è la vera vocazione di questi signori? Che nessuno li mandi… a fare i comici!”

“Magari ce li manderebbero pure, maestro, e non solo a fare i comici; ma il fatto è che poi restiamo senza statisti…”

“Statisti?” fa lui aggrottando la fronte, come se la parola gli avesse smosso un lontano ricordo; quando poi rilassa il volto, mi guarda e dice: “Lo sai che stavo pensando?… Che, al confronto di certi senatori e deputati che vedo in giro, il mio Antonio La trippa si potrebbe definire uno dei più grandi statisti della storia della Repubblica… E non farmi aggiungere altro, anche perché ormai siamo arrivati.”

Guardo in alto, al terzo piano del palazzo, e anch’io posso vedere Peppino: è affacciato al balcone, tiene in mano un colapasta e lo agita come una racchetta da tennis gridando all’indirizzo del compagno di tante avventure: “Ma vuoi salire sì o no? Proprio adesso vado a scolare i maccheroni!”

Totò mi stende la mano per salutarmi, poi mi fa: “Non te la prendere se non t’invitiamo a pranzo. Purtroppo ci è severamente proibito.”

“E perché?” gli chiedo io.

“Ma perché noi siamo gente seria: appartinimm’’a morte.”

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