27 Luglio 2024

Ricevo dal prof. Antonio Capano una interessante recensione sul viaggio di Dieter Richter nel gusto italiano.

Di Pasquale Martucci

Per i tedeschi, scrive Dieter Richter nel suo interessante volume: Con gusto. Il Grand Tour della cucina italiana, traduzione di Alida Fliri Piccioni, Amalfi, Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 2022 (Biblioteca Amalfitana, 19), ricco di citazioni, cui si rinvia, in cui si intrecciano nell’alimentazione preferenze collegate a civiltà e a consequenziali atteggiamenti diversi anche nei riguardi della cucina, in tutto l’arco del XIX secolo – l’olio era considerato maleodorante, sostanza che con la cottura diventava densa e resinosa e anche indigesta.

Il poeta ‘basso tedesco’ Klaus Groth, nel suo soggiorno a Capri nella villa di un amico e pittore di Amburgo, evitò il rischio della dissenteria, considerata la «malattia dell’olio», alimentandosi in sua compagnia con burro dell’Holstein, con cui si riempivano anche i panini, con le aringhe salate affumicate di Amburgo, servite in insalata, con carne affumicata, prosciutto e salsicce, godute nella prima colazione; e fu l’olio che mise ‘in disordine’ le viscere di un funzionario del governo piemontese ricordato nel Gattopardo.

Alla cucina all’olio non erano abituati i cittadini del Nord Italia, che apparteneva alla civiltà del burro, la cui linea di demarcazione da quella dell’olio cadeva nell’area sud dell’Emilia e Romagna, definendosi così le «due Europe», esistite fino all’inoltrato Novecento, anche perché la gastronomia si differenziava, tra l’altro, per le diverse condizioni del clima e della vegetazione. Tra i Britannici, che nutrivano lo stesso pregiudizio nei riguardi dell’olio e dell’aglio, faceva eccezione Fanny Lewald; il curatore del volume mette giustamente in evidenza «i suoi resoconti sull’Italia, freschi e non convenzionali, dove lo sguardo femminile sul Paese non contempla solo le rovine di Roma, ma anche la cucina, la vita quotidiana, l’economia domestica e il gusto», e che nel 1867 ella critica l’opinione dei suoi connazionali «che pensano che il burro e lo strutto siano più puri, sani e gustosi dell’olio di oliva appena spremuto».

Al Nord era considerato tipico dei contadini ignoranti e grossolani e della plebe mangiare poco cotti e con le mani i maccheroni. Pertanto era consigliato ai viaggiatori stranieri di farseli servire ben cotti, mentre la rilevante quantità ingurgitata faceva persino ritenere che i Napoletani avessero una deformazione anatomica nella bocca che si dilatava perché potessero mangiarli. Ed essi assumevano un significato politico quando Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del Piemonte, dichiarò al suo ambasciatore a Parigi, in merito alla prossima avanzata di Garibaldi verso Napoli dopo la conquista della Sicilia, che «le arance sono già nella nostra tavola. Per il continente è meglio aspettare, perché i maccheroni non sono ancora cotti».

Il pesce di mare e soprattutto i frutti di mare non erano soltanto poco conosciuti dai tedeschi, che con difficoltà ne traducevano il nome nella loro lingua, ma erano associati per il basso costo all’alimentazione dei lazzaroni e, talora, se ne metteva in evidenza anche la mostruosità dell’aspetto; tra l’altro, sottolinea il curatore Richter, la ‘zuppa di vongole’ era ritenuta «buona ma poco digeribile».

Non minori rimanevano i sospetti di bontà per la pizza da parte degli stranieri europei; per Alexandre Dumas si correva il rischio di soffocare, forse per la sua grandezza; per Collodi essa, «nero pane abbrustolito», con il suo condimento di aglio, alici, olio e erbucce, rifletteva un sudiciume pari a quello del suo venditore.

L’Artusi (1891), che come altri dimostra di non averla conosciuta, ne denominerà un dolce mentre il Vocabolario della Crusca non riterrà di menzionarla.

A Napoli si vendeva, si mangiava e si dormiva all’aperto, anche perché gli spazi erano stati conquistati dalle classi privilegiate e dalla Chiesa, e vi si annullava la separazione rispetto alla casa, tra privato e pubblico. Cosa considerata di cattivo gusto, stigmatizzata ancora in un galateo degli anni Cinquanta del XX secolo, e confermata da Matilde Serao, che accennò ai maccaronari e al condimento della pasta con il sugo di pomodoro e con il formaggio. Oltre a quelli, vendevano per strada i ‘pizzaiuoli’, che vi cuocevano la pizza in una teglia, altrimenti conservata in un contenitore termico e venduta anche al taglio, in un ambiente in cui era comune portarsi «il necessario per il pranzo o per la cena avvolto in un brandello di carta», ci ricorda Goethe (1797). Aggiungiamo con il Richter la ‘nocellara’, la venditrice di noci, che «offriva anche semi di zucca tostati, piselli e fagioli (il ‘passatiempo’ per i napoletani)», i ‘tarallari’ dai taralli piccanti, gli ‘zeppolari’, cosiddetti per i tipici dolci alla crema ecc., mentre d’estate gli ‘acquaiuoli’, con la loro «botticella a tracolla, bricco e bicchieri» offrivano sia acqua fresca che succo di limone, lodato da Goethe (1830) ed anice, refrigerati con la neve, che gli avventori gustavano «come se fosse spumante».

Per ovviare alle critiche dei visitatori tedeschi, entusiasti della bellezza e della libertà del Sud, ma insoddisfatti della «preparazione tedesca degli alimenti», si consigliavano alberghi più consoni ai loro gusti e tradizioni, come il “Roesler Franz” di Roma, ove si poteva utilizzare una cucina priva di olio; e vi mangiò più volte lo stesso Goethe, forse invaghitosi di Costanza, figlia dell’albergatore, anche se anch’egli doveva sopportare il chiasso dei connazionali riuniti fino a tarda notte nella sala da pranzo (1786).

In più, oltre al “Carlin”, in città era nota la sede dell’«Unione degli artisti tedeschi»; qui, nel salone da pranzo si servivano piatti con i crauti e boccali di birra della birreria tedesca in via dei Due Macelli (1859), ma anche prodotti della locale pasticceria e salumificio tedeschi, con l’opportunità di una stanza della musica e una sala di gioco.

Si informava i Britannici, abituati a mangiare carne, che nell’Italia del Sud svolge un ruolo minore, considerata l’astinenza dalla carne in un terzo dei giorni dell’anno, che venivano serviti polli, carne di manzo, montone e vitello spesso non di buona qualità e difficili da masticare, in quanto resi duri dopo una lunga cottura, e minestre, che in Toscana meridionale (1844-45) erano costituite da un «brodo mal fatto, assai saporito se lo si assaggia carico di formaggio e con abbondanza di sale e pepe […] un intruglio con dentro riso o verdura», cui si aggiungevano «un pezzetto di cacio parmigiano, e cinque mele piccole e vizze ammucchiate l’una sull’altra in un piattino».

Inoltre si criticavano i piatti di carne di maiale molto grassa servita spesso al posto di quella di vitello o di manzo, le interiora, molto apprezzate in Italia, e gli uccelli arrostiti. E se lady Diana Miller sognava «pane e formaggio inglese con una birra piccola» (1777), non rimaneva per molti altri che cercare i tea room delle grandi città (ad es. il “Caflish” di Napoli).

Per evitare truffe dai locandieri, si stipulavano contratti con i vetturini privati comprensivi anche del numero e tipo dei piatti da servire (1848). Goethe durante il suo viaggio in Sicilia, si rifiutò di mangiare, a differenza dei vetturini, «verdura cruda, broccoli di rapa e cardi» e a Catania «una gallina insaporita con abbondante zafferano locale», la specialità siciliana (1797).

Negli alberghi di un certo livello si seguiva la cucina francese e le tavole erano separate. Ma in contesti più modesti si mangiava in una lunga tavola comune. «Sino al Novecento esistevano regole fisse per l’assegnazione dei posti, che dovevano esprimere il rango sociale di ogni ospite […] le signore che viaggiavano sole, sentendosi esposte a sguardi curiosi o provocatori, potevano a loro volta non sentirsi a proprio agio», ma, talora, l’isolamento, ad esempio il dover essere sedute in fondo al tavolo, generava il bisogno di stare insieme ad altri per socializzare (1844).

La prima colazione non faceva parte dell’offerta standard degli hotel italiani (1891) il che rappresentò un handicap per gli stranieri d’Oltralpe, abituati ad una ricca colazione, che veniva servita solamente in hotel raccomandati, «che offrivano un breakfast con burro, uova o addirittura carne».

Se si poteva evitare l’hotel si affittava un appartamento. Ciò si riscontra a Napoli, già a metà Ottocento (1845) e nel citato alloggio comunitario di artisti a palazzo Moscarelli di Roma, ove si fermò Goethe, che offrì loro abbondanti pasti.

La trattoria romana “Lepre” in via Condotti «godeva di grande popolarità presso la colonia internazionale di forestieri» e presso i “viaggiatori di passaggio”, come Winkelmann; era nota anche per le «Acque Gazose» e per i piatti dedicati come le «Paste alla Tedesca», l’inglese «Rostbiff girato», il «Riso alla Portoghese» e nell’elenco dei vini, era compresa la «Birra in bottiglia» di tradizione tedesca ma dal costo doppio del vino bianco locale. I tedeschi, ci informa Richter, avevano per care, soprattutto nell’Ottocento e fino al periodo precedente la Prima guerra mondiale, osterie collegate a particolari ricordi come la presenza di uomini illustri o per la pubblicità promossa da importanti giornali.

Comunque, i tedeschi cercavano di realizzarsi nei locali italiani; si generava uno «stato di ebrezza indotto dalla birra e dal vino che era di casa nelle serate delle corporazioni studentesche e che si associava ad un nazionalismo sempre più aggressivo»; e nelle osterie della «Capri tedesca» si festeggiava agli inizi del ’900 il Natale tedesco e il compleanno dell’imperatore non senza la ‘certezza’ di una Germania superiore alle altre nazioni.

La coltivazione di limoni e aranci, introdotti nel Medioevo nell’Italia meridionale grazie ai contatti con l’Oriente e alla conquista araba, nel Rinascimento si diffusero fino a Roma e, quindi, a Norimberga, centro di una cultura dell’orangerie che dal Seicento era divenuta di moda; insieme al loro dispendioso ricovero invernale, era diventata parte della cultura dei giardini delle élites borghesi e aristocratiche di varie regioni», in quanto collegata fin dal Rinascimento all’Età dell’Oro ed alla promessa di un suo ritorno, oltre che oggetto di «una forte rilevanza decorativa e simbolica nell’arte e nella cultura», nella teologia cristiana medievale e nell’ebraismo.

Il dolceamaro dei limoni e le sue numerose applicazioni, come per i cedri, in sughi, insalate, minestre, preparazione di torte (con i fiori e le scorze messe in conserva, e commerciati appesi a fili o impacchettati in casse), furono ben elencati dal Volkamer nel suo trattato sull’uso e diffusione delle Esperides e del Citrus (1708).

Delle arance, di cui si diffusero anche quelle dolci dette ‘mele cinesi’, e dei limoni si usavano i fiori e i semi per produrre le spezie, mentre le foglie d’arancio, si scriveva, «masticate in bocca rendono profumato l’alito» (1723).

Allo stesso modo il gelato, che trae origine dalla cultura araba (sorbetto, šarba), diventato di moda nei caffè delle metropoli europee nel XIX secolo, alla fine di quel secolo «divenne il messaggero del gusto italiano nel Nord»; fu venduto da gelatai provenienti questa volta «da due zone dolomitiche del Veneto, la val di Zoldo e il Cadore», che dapprima operanti in un commercio ambulante nei mesi estivi e poi in sedi fisse, grazie a reti familiari (v. Giovanni Camulera e il fratello Amedeo, pur tenuti inizialmente sotto controllo e sottoposti a multe ed espulsi ma rampanti), ed ancor oggi presenti in due terzi delle gelaterie tedesche, precisa Richter.

La pizza che in Germania, nota per l’amore verso l’Italia ma anche per il «rifiuto del gusto estraneo», si è affermata soprattutto alla fine degli anni Sessanta per l’arrivo di meridionali, dopo essere stata definita, nel 1960, nella guida d’Italia del Bertelsmann, «focaccia, ripiena di pomodoro, acciughe, formaggio e altri ingredienti»; nel 1966 fu aperta la prima pizzeria a Monaco di Baviera e nel 1968 nella Ruhr e, quindi, in ristoranti di buon livello nelle città, frequentati da tedeschi e da italiani di ceto elevato, che nel menu offrivano anche la pizza, cui si aggiungevano in centri di grande immigrazione piccoli locali, poco considerati dai tedeschi, e luoghi di riunione degli Italiani.

Rinviamo, infine, al Richter per le trattazioni relative alla salvaguardia ed alla promozione della pizza in Italia, a partire dall’Associazione ‘Pizzaioli Europei e Sostenitori’ (1981) fino al 2017 in cui fu iscritta nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’UNESCO, al movimento Slow Food nato in Italia nel 1986, «movimento ecologista molto influente che lotta per la biodiversità e la sostenibilità»; e alla figura del medico Ancel Keys, che dopo aver pubblicato nel 1959 un manuale sulla nutrizione «che richiamava l’attenzione sugli effetti negativi di un’alimentazione “malsana” soprattutto ricca di grassi» con lo studio edito nel 1980 passò al concetto di ‘Dieta Mediterranea’ (2017), comprendendovi sette paesi di quel bacino, che continuò a studiare dopo il suo trasferimento a Pioppi nel Cilento, ove si aprirà il Museo della Dieta Mediterranea mentre un centro di ricerche sulla dieta Mediterranea sarà istituito presso l’Università ‘Suor Orsola Benincasa’ di Napoli.

ANTONIO CAPANO

(lo scritto è stato pubblicato in “Rassegna Storica Salernitana”, 79, Società Salernitana di Storia Patria, Francesco D’Amato editore, Nuova Serie, n. 9 giugno 2023)

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