27 Luglio 2024

I luoghi, i personaggi, la storia” da Cronista di Strada a cura di Mario Fortunato del 18 giugno 2023

L’oro della Brianza

Il baco e le cascine

Contesto storico

La ruralità della Brianza è un patrimonio storico meritevole di essere valorizzato e affidato alle future generazioni.

I sentieri che intersecandosi nella vasta pianura disegnano variegate figure geometriche; remoti casolari sopravvissuti alla prepotente trasformazione delle campagne; e i campanili che svettano sugli edifici degli antichi villaggi, sono la testimonianza di quella che fu la civiltà contadina lombarda.

Tra i campi dissodati, lungo le nuove vie intasate di veicoli, le ultime cascine e qualche nobile villa rappresentano i veri monumenti della vecchia Brianza. Un grande territorio, a nord di Milano e a sud del lago di Como, che ha costruito la propria fortuna sulla forza delle sue famiglie.

Le piccole imprese familiari

Un modello di società basato su gruppi di persone: nonni, genitori, figli e nipoti; un assieme affiatato nel lavorare, mangiare, raccontarsi e vivere la vita; nuclei familiari, anche con più di venti persone, che hanno costituito l’embrione di quello che sarà il fulcro della nuova società post-guerra: l’industria nata dalle piccole imprese familiari.

Tutto ciò si è reso possibile allorché i ‘padroni’ hanno compreso che sarebbe stato meglio dare in gestione i terreni e le cascine ai contadini: per avere meno problemi e maggiori profitti.

Ed è stato così. I nuovi contratti di locazione hanno portato maggiori guadagni ai proprietari, consentendo alle famiglie di gestire i campi avuti in fitto con la libertà, la fantasia e l’interesse dell’imprenditore.

Un ruolo basilare, in questo modello di nascente società, lo hanno recitato le vecchie cascine: quelle più piccole (‘monoaziendale’) condotte da una sola famiglia e le cosiddette ‘pluriaziendale’ fittate a più nuclei familiari che accoglievano anche 100 persone.

Che fine hanno fatto le vecchie cascine in Brianza?

Nel Vimercatese – area compresa tra i confini di Monza, Biassono e Lesmo a ovest; l’Adda a est, con il territorio di Trezzo come estremo orientale (al confine della Provincia di Milano); e a sud, oltre l’autostrada A4, i centri da Brugherio a Trezzo – tante fattorie sono state demolite e trasformate in edifici completamente diversi. Altre, come la ‘cascina Paradiso’ di Carnate, sono state destinate ad uso residenziale (Giorgio Federico Brambilla – ‘Paesaggio rurale, cascine e case a corte del Parco del Molgora e della Brianza vimercatese’).

La Cascina Paradiso a Carnate

Ereditata da Graziella Malugani Da Re dalla mamma Carolina Banfi (detta Lina) – nota famiglia lombarda con proprietà di terreni e immobili non solo in Brianza – la ‘Paradiso’ rappresenta un esempio di ristrutturazione in simbiosi con il contesto storico e architettonico.

L’antica Corte, composta dal piano terra e da due piani superiori, è stata trasformata in mono e bilocali, mantenendo immutati i due porticati (piano terra e primo piano) e le altezze dei locali; il fienile, seriamente danneggiato a causa di un incendio, senza alterare la volumetria e rispettando il vecchio disegno, è stato adibito a monolocali.

Ampio e ricco di verde il parco che dal cancello principale mediante alcuni vialetti porta agli ingressi delle strutture ricettive.

La ‘Cascina Paradiso’ ha ospitato tante famiglie di contadini, tra cui: i Tremount, i Ruchè, i Palandìt, gli Spinelli di Mosè e i Ross. Nel secolo scorso, fino agli anni Settanta, ci ha vissuto anche Carlinèu di Ross (al secolo Carlo Perego), con la moglie Bisìna (Luigia) e i loro figli (dodici, di cui due morti giovanissimi, nel 1919).

I Ross sono uno dei rami dei Perego di Carnate. Il ramo da cui discendo io viveva nella cascina Paradiso, forse la più bella e la più conservata della vecchia Carnate. Si trova sulla via Matteotti, a fianco dell’unica strada che congiungeva Carnà di Sùra (Carnate di sopra)con Ronco” (‘Te se regòrdet i temp indrè… a Carnà’ di Carlo Perego).

Essendo provvista di stalle, di un ampio spazio destinato all’aia, un pozzo per attingere l’acqua, e di porticati utilizzati per svolgere alcuni lavori in caso di pioggia e come ‘sala comune ‘ per consumare la cena nelle serate estive, mentre i bambini erano liberi di giocare e correre nel terreno antistante, ben raffigura la dimora delle vecchie famiglie dedite alla terra e alla bachicoltura.

Le cascine e la bachicoltura

I contadini che vivevano nelle cascine, oltre a lavorare la terra (in particolare grano, mais e patate), si dedicavano all’allevamento dei bachi da seta che consentiva d’incrementare i profitti.

I bachi importati dalla Persia, nel 530 d.C., cominciarono a svilupparsi in Sicilia, e da Palermo, nel XVII secolo, furono portati a Milano da alcuni frati. Trovarono diffusione soprattutto in Brianza, il cui territorio, tra il ‘700 e la metà del ‘900, fu invaso da gelsi; nel 1835 si contavano quasi 3 milioni di piante di mori, con la lavorazione della seta balzata al primo posto scavalcando l’agricoltura (Carnate: Viaggio nei secoli di M.P. Canegrati).

A inizio del Novecento, i contadini brianzoli venivano consierati dei veri e propri maestri del settore.

L’allevamento dei bachi da seta, che ben si prestava ad essere effettuato nelle cascine dotate di locali alti e arieggiati, crea di fatto il primo lavoro a domicilio.

I telaietti erano costituiti anche da tre piani di tavole; potevano contenere fino a 20.000 uova ricoperte da tre strati di carta forata; venivano sistemati in ogni locale della casa, e quando diventavano grossi anche in camera da letto, con i contadini che dormivano sotto le tavole.

Fondamentale il ruolo svolto dalle donne che riuscivano a garantire il necessario nutrimento (le foglie di gelso) e l’adeguato calore (alimentando con legna e fascine il focolare) per la buona crescita.

L’allevamento dei bachi da seta assicurava il primo reddito ai contadini.

I bozzoli venivano venduti alla filanda e il ricavato era diviso a metà con il padrone che acquistava i semi. Ma sulle magre condizioni di vita dei contadini, non solo di Carnate, ci viene offerta una testimonianza sempre dal volume di Perego, che nel capitolo ‘Ul campé’ paragona il fattore dei Banfi al personaggio Attila del film Novecento di Bertolucci.

Il racconto

Suo nonno materno Carléu del Laléa (Carlo Passoni), dopo una lunga giornata di lavoro che lo aveva visto alzarsi in piena notte per andare a recuperare le foglie di gelsi a decine di chilometri di distanza (non essendo sufficienti quelli prodotti nelle terre che coltivavano), si era visto piombare in casa, mentre mangiavano, il fattore ul Càsa venuto a ispezionare come procedeva la coltura dei bachi. Alzando la testa dalla scodella di zuppa, con modi bruschi, aveva oservato che, quando si entrava in casa sua, bisognava chiedere permesso. Il fattore, prima di andare via, aveva replicato con arroganza facendo presagire che non sarebbe finita lì.

Infatti il giorno successivo, mio nonno fu chiamato in Villa Banfi, al cospetto dell’amministratore che gli comunicò, senza parafrasi che per il prossimo San Martino doveva andarsene. San Martino, l’11 novembre era la data in cui ogni anno venivano rinnovati i contratti di affitto e gli attituari a cui non venivano rinnovati dovevano traslocare. Fare San Martino ha sempre significato, anche in tempi più recenti, traslocare…”

Carlèu non era il tipo da chinare la testa, nonostante le suppliche di sua moglie Rosa. La donna dopo aver riflettuto qualche giorno si decise: “Andò dalla sciùra Bice (sorella di Franco e figlia di Bernardo Banfi). La implorò, cercò di fare leva sulla compassione. Le raccontò dei numerosi figli e dei due vecchi nonni che vivevano con loro. Insomma si umiliò. Ma ottenne il risultato che il contratto di affitto venne rinnovato. Aveva scelto la sicurezza della famiglia rispetto ad avere ragione di un prepotente. Mia nonna Rosa è rimasta fino al 1970 in quella casa: per lei come per molti dei nostri vecchi, fu di grande consolazione morire nel proprio letto”.

I giudizi sui ‘padroni’ sono contrastanti. Non essendoci più i protagonisti, bisogna affidarsi alle testimonianze orale raccolte dagli eredi. Alcuni osservano che erano soprattutto i fattori a fare il bello e il cattivo tempo. L’opinione diffusa è che i contadini non ci facevano grandi affari; e i sacrifici da sopportare non erano pochi.

I racconti di mia madre non erano affatto postitivi. Come pure la vita in filanda. Quando, nel 1947, la filanda chiuse, per molte donne fu una liberazione, poterono andare a lavorare altrove e con maggior soddisfazione” conferma l’autore del libro Carlo Perego.

L’oro verde di Carnate

L’industria della seta è stata preziosa anche per Carnate, centro a pochi chilometri da Monza, dove la filanda di proprietà dei Fratelli Banfi (sita in via Bazzini, nei pressi del vecchio asilo), comprendente anche un filatoio (non molto lontano dalla chiesa, dove è stato creato il Parco Canatori), offriva lavoro a centinaia di persone: per la maggior parte donne: a partire dai 12-14 anni.

Subito dopo la Grande Guerra, grazie alla grande richiesta di seta (utilizzata altresì per la realizzazione dei paracaduti), iBanfi arruolarono operaie provenienti dal Friuli, dal Veneto, dalla provincia di Pavia, dal lodigiano e da altre parti d’Italia.

La seta è oro, fai poco strassa”

Le giovani furono alloggiate nei locali dell’ex Convitto Carmelitano. Erano più di 100. Le cronache dell’epoca le descrivono ‘innammorate del ballo e degli amoreggiamenti’, tanto che il sacerdote don Ersilio Magni sarebbe stato costretto a chiamare le suore per farle da guardiane.

Un po’ di svago era giustificato: durante il lavoro, le donne non potevano parlare ma solo cantare; il turno cominciava alle sei di mattino e terminava alle sei di sera, con brevi intervalli (alle otto per consumare la pulià: pane giallo con lardo) e a mezzogiorno per il pranzo.

Le operaie che lavoravano nel filatoio portavano legate alla vita le forbici e la ‘saccoccia’ (una tasca nera) in cui mettevano la ‘strassa’: lo scarto di filo tagliato quando si rompeva; dovevano fare attenzione perché se la strassa superava i 18 grammi rischiavano la multa.

Tante donne del posto, terminato il turno in filanda, facevano gli straordinari nei campi e a casa per accudire i bachi e la famiglia.

Per consentire alle mamme con figli piccoli di poter lavorare, i Banfi, nel 1909, costruirono un asilo in grado di ospitare 150 bambini. La struttura sita in via Bazzini, dal 1926 venne gestita dalle suore Domenicane Imeldine.

È tuttora architettonicamente ben conservato e meriterebbe di essere ristrutturato e destinato ad attività in armonia con la cultura e la memoria storica.

Molte famiglie abitavano nelle case a corte, nei pressi della villa Banfi, dove è stato ricostruito un nuovo nucleo abitativo, e nelle cascine.

Gli stipendi variavano: un’operaria appena assunta prendeva 3 lire e 3centesimi, mentre un’operaia esperta raggiungeva le 7 lire e 60 centesimi. Per fare un raffonto con il costo della vita odierna, un chilo di pane costava 80 centesimi, un uovo 15 centesimi.

La società Bernardo &Lorenzo Banfi – fondata nel 1888 a Milano – annoverava le fabbriche dislocate in Veneto e Friuli (Palmanova, Caneva, Carpaccio, Dignano, San Giacomo di Veglia e Vittorio Veneto). Gli stabilimenti di Carnatesono stati chiusi nel 1971.

Negli anni in cui la seta veniva citata come ‘l’oro lombardo’ si lavorava a tempo pieno, impiegando centinaia di persone nell’arco delle 24 ore. Nel volume “Carnate: Viaggio nei secoli” viene riportato che “nel turno di notte lavoravano esclusivamente operai meridionali”. Qualcuno precisa che nel turno notturno veniva impiegato anche qualche locale, ma la maggioranza veniva dal Sud Italia.

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