24 Aprile 2024

«Le interviste impossibili» dello scrittore Pasquale Carelli

La cerco da lontano con lo sguardo rivolto ai tavolini sistemati in fila davanti a un bar del centro. Sta di spalle, ma il cappello nero a falde larghe, la borsa rigonfia (presumibilmente di libri e di giornali) appesa allo schienale della sedia, e soprattutto quel filo di fumo che se ne sale perfetto ed azzurrino, spezzandosi a volute arabescate contro la tela del gazebo giallo, sono indicativi più di un documento completo di foto-tessera a colori. Non posso sbagliare: sto per incontrare proprio la Fallaci, quella di Un uomo, di Lettera a un bambino mai nato, de La rabbia e l’orgoglio, tanto per ricordare a me stesso appena qualche scritto di colei che mi accingo a intervistare con prudenza.

La raggiungo e la saluto. Tanto per cambiare, sta scrivendo in fretta e fitto fitto; alza per un attimo la testa dalla pagina e mi dice: “Siediti… solo un minuto…” E’ di parola: passa anche meno di un minuto e chiude l’agenda per dare l’ultimo tiro alla sua sigaretta agonizzante.

“Ho preso degli appunti per il mio nuovo libro,” mi spiega, e aggiunge: “Questa è una confidenza che ti faccio, promettimi di non parlarne con nessuno e di non scriverlo nemmeno sul giornale.” Le assicuro il massimo riserbo, però le chiedo se almeno può svelarmi l’argomento di quello ch’è il suo prossimo lavoro.

“Se tanto t’interessa, posso anticiparti addirittura il titolo che ho in mente,” mi risponde lei.

“Certo che m’interessa!”

E allora, abbozzando un sorrisetto dietro gli occhiali giganteschi, mi fa: “Ho pensato di intitolarlo Lettera a un bambino appena nato… cosa ne dici?”

“Dico che lei mi lascia stupito, ma anche molto incuriosito,” le rispondo.

“Ho capito: vorresti che mi sbilanciassi ancora un altro poco con le confidenze. E va bene; siccome mi hai promesso di non farne parola con nessuno, ti confiderò anche qual è il tema di questo mio racconto epistolare. Perché si tratta di una lunga lettera, come quell’altra che tu conoscerai; però, questa la scrivo ad un bambino che ce l’ha appena fatta ad arrivare in questo mondo, di questi tempi, e soprattutto in questa Italia che ci ritroviamo adesso.”

“Capisco, e indirizzata ad un piccolo italiano.”

“Sì, proprio ad un piccolo italiano,” mi conferma lei, “ad bambino che nasce oggi ma che leggerà questa mia lettera, diciamo, fra una ventina d’anni, quando sarà abbastanza grande per essere informato.”

“Informato di che cosa?…”

“Di che cos’era il posto dov’è nato prima che finisse di essere una Patria.”

“Prima che finisse?…” le chiedo un po’ disorientato, ed anche allarmato da quel verbo.

“Ma certo. Non lo sai che chi vince cancella sempre il passato di quelli che ha sconfitto?”

A questo punto, credo di aver capito troppo bene l’argomento del suo prossimo libro, e timidamente azzardo: “Scusi, ma non le sembra di essere un po’ troppo pessimista?… diciamo una Cassandra che spaventi?… e mi perdoni se faccio un tale accostamento.”

“Dici per la Cassandra?…” mi fa lei. “Sei anche gentile a definirmi solo una Cassandra che spaventa; io sono abituata ad epiteti molto più pesanti: matta visionaria, razzista, xenofoba, fascista… tutti aggettivi che mi ha dedicato la folta prole di quella madre protagonista del più veritiero detto che abbiamo qui in Italia…”

“A quale madre allude?…” le domando io, non riuscendo a collegare.

“Ma alla madre dei cretini!” mi risponde lei scandendo bene l’ultima parola, e poi mi spiega: “E’ una signora che qui da noi si ritrova costantemente in stato interessante.”

Adesso collego facilmente madre, figli e detto; tuttavia le chiedo di spiegarmi meglio. E lei non si fa pregare certamente: “Secondo te, di chi può esser figlio uno che crede di vincere una guerra sfoderando la tolleranza e la democrazia davanti ad un nemico armato fino ai denti?…”

“Della suddetta signora sempre in gravidanza, come ricordava Ennio Flaiano,” le rispondo io, facendo appena in tempo prima che lei incalzi con l’elenco: “E quelli delle sfilate pacifistiche e delle fiaccolate?… e quelli che s’indignano a parole laddove si dovrebbe agire a quattro mani, e se ne rimangono seduti alle poltrone?… non quelle dei salotti loro, ma quelle che paghiamo noi…”

Non mi dà il tempo di risponderle che allunga la lista dei fratelli, tutti figli legittimi di quella stessa madre: “E quelli che fanno i girotondi nelle piazze?… e quegli altri che si dicono impegnati nella costruzione della pace, attrezzati di cori, cartelloni e bandierine colorate?… Lo sa che cosa stanno edificando, questi geni dell’architettura culturale?…”

Nemmeno questa volta mi dà il tempo di aprir bocca e risponde lei al mio posto: “Stanno costruendo un monumento alla loro stessa madre!”

Si ferma, ma soltanto per il debito di ossigeno, e finalmente mi dà il tempo di parlare e di proporre: “Mi scusi, non è che potremmo inserire nell’elenco anche quelli del minuto di silenzio, magari come risposta alla suddetta indignazione poltroniera?”

“Ma certo!” esclama lei, aggiungendo: “Perché in Italia abbiamo gente che, per il bene di quel poco che ci resta della Patria, dovrebbe fare, non un minuto solo, ma perlomeno dieci anni di silenzio!…”

Ci ho preso gusto anch’io: “E quelli della trasparenza?…”

“Bravo, mettiamoci anche loro,” mi fa lei. “Dimenticavo i cacciatori della trasparenza in un Paese nel quale è tutto opaco…”

E qui s’alza di scatto, come sopraffatta da un’improvvisa nausea intellettuale; raccoglie la sua roba, mi dà la mano e dice: “Adesso me ne devo proprio andare, buona fortuna a tutti voi, che rimanete in questa Italia che si sta rimpicciolendo a vista d’occhio.” Fa qualche passo e poi torna indietro. “Sai?… ci ho pensato meglio,” mi dice. “Se ti fa piacere, ti do il permesso di pubblicarla integralmente, l’intervista che m’hai fatto: potrebbe pure darsi che le mie risposte da Cassandra che spaventa provochino qualche aborto alla suddetta madre… Non si sa mai.”

Scompare in fondo al marciapiede, fagocitata da una folla indifferente. Io resto lì, sotto il gazebo. E’ come se scoprissi all’improvviso che l’Italia si stia davvero raggrinzendo, diventando troppo piccola rispetto a quella di una volta, e che tutto lo spazio se lo prendano una facile bontà ed una pace che è figlia di una resa: ed entrambe vengono urlate ai quattro venti.

Passando il tempo, andrà a finire veramente che non ci resterà nemmeno un angolino per ficcarci un po’ di rabbia e tanto meno un po’ di orgoglio.

Forse, altro non ci resta da sperare che la Fallaci sia davvero una matta visionaria.

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