27 Luglio 2024

«Le interviste impossibili» dello scrittore Pasquale Carelli

Don Camillo e Peppone

Li incontro al ristorante, seduti l’uno di fronte all’altro. Sgranocchiano grissini in attesa delle portate, e chiacchierano amabilmente, tanto che mi meraviglia non scorgere in essi alcun segno di quella divertente rivalità che tutti conosciamo. Amabilmente, mi invitano anche ad accomodarmi al loro tavolo per fare onore ad un menù che ha dichiarato guerra alla parsimonia, oltre che alla dieta mediterranea: antipasto mari e monti, cappelletti in brodo, arrosto di maiale, salsiccia alla brace e un concerto di insaccati vari; il tutto innaffiato (come si scrive nelle raffinate locandine delle sagre) da vino locale, che altro non può essere se non il sincero e decantato Sangiovese. Non per niente ci troviamo a Brescello in provincia di Reggio Emilia, quel paese che i due suddetti commensali si contendevano nelle vesti di formidabili e indimenticabili rappresentanti delle contrapposte chiese dei loro tempi d’oro: quella più che millenaria e democristiana del reverendo don Camillo e quella assai più giovane, ma non per questo meno venerata, del rosso sindaco Peppone.

“La nostra fu una convivenza difficile, fatta di opposte ideologie e di contrasti politici, ma è sempre da rimpiangere,” esordisce don Camillo, toccato nel profondo un poco dalla nostalgia e un poco da una fetta di soppressata che gli sorride dal piatto degli antipasti; e Peppone, dopo aver infilzato e fatta sua proprio quella leccornia adocchiata dal prete, è più esplicito e anche più polemico: “Erano tempi duri per il nostro paesotto appena uscito dalla guerra, ma erano sempre meglio di questi di adesso, se pensiamo che nell’aprile del 2016 quello che fu il mio Comune di Brescello è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Tu te lo saresti mai immaginato?” E’ a me che il sanguigno sindaco rivolge la domanda, e io gli rispondo che, per come conoscevo il loro paese attraverso le pagine di Giovannino Guareschi e i relativi film, non avrei mai potuto pensare a una cosa del genere; però, aggiungo pure che, riflettendo meglio sulla predominante guida politica nazionale che ha avuto l’Italia negli anni del dopoguerra, avrei potuto anche immaginarlo… A questo punto, l’ex-sacerdote di Brescello, ritornando all’istante quel permaloso personaggio del cinema in bianco e nero, prende la mia risposta come una provocazione di parte e, battendo un pugno che fa sussultare il tavolo, le stoviglie e il Sangiovese nei bicchieri, esclama: “Sicché, tu vorresti dire che se la malavita è arrivata anche nelle istituzioni del Nord la colpa è dello Scudo Crociato di quella lontana epoca?… La tua non è altro che una inopportuna insinuazione!” Cerco disperatamente di spiegare che non intendevo offendere nessuno scudo e tanto meno la croce, ma il prete rimane furibondo, puntandomi addosso un ditone tremante e incollerito. Invece, Peppone sembra gradire molto la mia inopportuna insinuazione, almeno quanto i cappelletti che il cameriere si appresta a servirci; infatti, fingendo un attacco di tosse, l’omone se la ride sotto i cespugliosi baffi fino alle lacrime, gustandosi tutta l’ecclesiastica rabbia di colui che comincia a rivestire i panni dell’eterno suo rivale. Naturalmente, a don Camillo non sfugge la sinistrorsa esibizione di malcelato giubilo vermiglio e, cambiando bersaglio, indirizza il suo ditone contro il primo cittadino della Brescello che fu: “Sì, tu riditela pure di soppiatto, ma non dimenticare che se questo (il questo sono io) attribuisce, ingiustamente, ogni colpa al Biancofiore, c’è almeno un’altra mezza Italia che l’attribuisce a voi, Bandiere rosse!” Di fronte a tale osservazione su quanto sia cronicamente biforcuto l’atteggiamento degli italiani sulla loro storia patria, non posso non trovarmi d’accordo con il focoso sacerdote. “Qua, don Camillo ha ragione da vendere!” affermo decisamente ma, anche stavolta, imprudentemente; perché Peppone, di certo ritenendomi un nostalgico sostenitore democristiano camuffato da progressista, muta il suo riso in un ghigno e, impugnando la forchetta a mo’ di una proletaria falce (momentaneamente vedova del martello), si alza minacciandomi e apostrofandomi: “Ho capito: anche tu appartieni a coloro che rimpiangono quell’innominabile regime!” Altro che nostalgico sostenitore democristiano, come pensavo io: Peppone mi affibbia, seduta stante, una nostalgia ben più antica e perniciosa di quella scudocrociata: addirittura mi attribuisce il rimpianto per il vituperato Ventennio. Nonostante la mia completa estraneità all’innominabile regime (non fosse altro che per motivi anagrafici),temo tuttavia qualche postuma ritorsione congiunta (cioè da parte di entrambi), perché, data la loro provenienza ideologica e politica, sono indotto a pensare che l’unico argomento sul quale prete e sindaco si trovino d’accordo sia un duro, puro e sacrosanto Antifascismo.

Così pensavo, ma sbagliavo: nemmeno sull’Antifascismo i due si trovano d’accordo; perché, toccando uno dei tasti più dolenti del malcapitato pianoforte della nostra storia contemporanea, iniziano immediatamente l’annosa disputa se a liberare la Patria dalle Camicie nere fu la chiesa dell’uno o quella dell’altro. Mentre ascolto il loro alterco, prendendo anche qualche appunto a beneficio dei posteri, avviene qualcosa di straordinario: le figure dei due disputanti cominciano a sbiadirsi e le loro parole si fanno a poco a poco incomprensibili. Alla fine, don Camillo e Peppone svaniscono del tutto, lasciando vuote le loro sedie.

A un cameriere che passa chiedo dove siano finiti i due personaggi. “Se ne sono rientrati nelle loro pellicole in bianco e nero,” mi risponde lui tranquillo. “Fanno sempre così quando cominciano a parlare della Liberazione.”

“Allora, è stata tutta una cosa virtuale,” dico io. E il cameriere: “Sì, hai ragione, è stata tutta una cosa virtuale… ad esclusione del pranzo. Quello è stato reale, e qualcuno lo deve pur pagare.”

Dopo una lunga discussione col proprietario del ristorante, il conto (che è pure salato) lo pago io. Me ne esco col portafoglio assai più leggero; ma mi consolo pensando che, avendo pagato pure per loro due, posso sempre raccontare ai posteri di aver contribuito anch’io alla Liberazione dell’Italia.

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