19 Aprile 2024

Rubrica: «Le interviste impossibili» dello scrittore Pasquale Carelli

Le interviste impossibili dello scrittore Pasquale Carelli a personaggi straordinari che hanno lasciato tracce indelebili nell’arte, la storia, la ricerca e la letteratura.

L’incontro nel giardino di casa sua. E’ seduta alla poltroncina di vimini, ha uno scialle sulle spalle e una coperta le protegge le gambe; l’hanno messa lì per farle prendere il primo sole della sua ultima stagione. E’ pallida e scarna, il suo sguardo si perde in lontananza, in direzione di un colle dietro il quale potrebbe esserci di tutto: un fiume, un lago, una città, un mare… anche l’infinito. Ma, per come lei guarda, sembra che là dietro ci sia una valle desolata, nella quale una donna vestita di nero, con una falce nella destra, avanza lenta e inesorabile da lontano; credo che Silvia la veda anche, che addirittura stia contando i passi che fa: ancora un migliaio e sarà sul crinale, travalicherà l’altura e scenderà, decisa, proprio in direzione del suo giardino, fino a raggiungerlo ed entravi, dopo aver aperto con un alito il cancelletto di legno.

Sembra anche a me di vederla, la donna con la falce, e voglio pensare che siano ancora molti i passi che le mancano per arrivare al traguardo; un poco di tempo mi rimane, anche se non so proprio come cominciare questa intervista: è così diversa da tutte le altre. Ogni domanda che mi viene in mente mi si raggela all’istante sulle labbra; Silvia sembra accorgersene e, sempre con gli occhi incontro al colle, dice: “Non ne vale più la pena…”

“Niente affatto,” le rispondo. “Anzi, ci tengo molto a farti l’intervista; è solo che non riesco a trovare la prima domanda.”

“Se è per questo,” fa lei, sforzandosi inutilmente per trovare un sorriso da cacciar fuori, “vuol dire che sarò io a chiederti delle cose, se sei d’accordo.”

Accetto con sollievo l’inatteso ribaltamento dei ruoli.

Ma lei comincia subito con una domanda difficile: “Tu vieni da molto lontano, è vero?”

“Beh, diciamo di sì… per arrivare qui a Recanati…”

“No!…” mi ferma cercando di alzare un braccio da sotto lo scialle. “Non parlavo di quella distanza lì, parlavo di tempo… Dimmi la verità: tu vieni dal futuro?”

“E’ vero, vengo da un futuro lontano.”

“E perché vuoi… intervistarmi? Che cosa può interessare di me a voi che vivrete in un’epoca così lontana dalla mia? Chi mai può ricordarsi di me?”

“Tutti!” le rispondo secco, rubandole il tempo, e pensando anche di aver trovato il filo da seguire per portare avanti l’intervista. “Ti assicuro che ti ricordano tutti, che ti conoscono tutti. Sei molto famosa, da noi del futuro.”

“Ma che dici? Mi vuoi prendere in giro? Come fate a conoscermi se non mi avete mai vista?… Che potete saperne di me?…”

“Invece, ti giuro che di te sappiamo molto più di quello che tu mai potresti immaginare.”

Rimane sbalordita: un’insospettabile riserva di globuli rossi corre a colorarle le guance, e lei per un attimo distoglie anche gli occhi dal colle della morte e dell’infinito: posso finalmente vederli e leggervi nelle iridi, al volo, due aggettivi che non mi suonano nuovi: ridenti e fuggitivi.

“E dimmi: come mai avete saputo di me, voialtri che vivrete a distanza di tante stagioni da queste mie?” mi chiede alla fine.

La prendo alla larga. “Non conosci, tu, un giovane poeta che…?”

“Giacomo!” esclama lei. “Sì, il figlio del conte Monaldo… lo vedo ogni tanto, quelle rare volte che si affaccia al balcone… è così timido, Giacomo; sarà colpa di tutti quei libri di suo padre: non fa che leggerli, fin da quando era bambino. Lui se ne resta sempre chiuso nella biblioteca, mi somiglia a quei passeri che se ne stanno per conto loro, che cantano da soli nelle campagne… sì, Giacomo mi sembra proprio uno di loro.”

“Hai ragione,” faccio io, “e ti dirò che anche Giacomo lo sa di somigliare a quegli uccelli solitari e dal canto struggente. Anche lui canta; ed è proprio grazie ai suoi canti che noi del futuro ti conosciamo.”

“Davvero?” esclama lei, miracolosamente sobbalzando sulla poltroncina di vimini. “Non dirmi che Giacomo ha cantato anche di me!…”

“Certo, ed è proprio per questo che ti conosciamo, che sono venuto a intervistarti e che ti ricorderemo per sempre… Sapessi come ti ha resa celebre, Giacomo! Figurati che da noi non esiste studente che non abbia letto il tuo canto, molti lo hanno anche imparato a memoria, e ci sono perfino degli attori che lo recitano nei teatri, davanti a migliaia di persone…”

Silvia si fa man mano così viva nello sguardo e nella voce che credo stia mettendo in difficoltà la donna vestita di nero. “Ma come?…” mi chiede incredula, sorridendo e arrossendo. “Come ha potuto, Giacomo, dedicarmi dei versi d’amore se appena ci siamo parlati qualche volta? Se ci vediamo soltanto da lontano, ogni tanto?…”

“La poesia, quando è vera poesia, fa di questi miracoli,” le rispondo, mentre in cuor mio auguro alla donna con la falce di inciampare in qualche sterpo della valle desolata, e che la punta del suo inesorabile strumento le si conficchi dritto nel cuore.

Silvia continua a sorridere, col capo appena chinato; invece che i passi maligni della donna, ora mi sembra che stia a contare le corolle di un ciuffo di margherite selvatiche nate sotto il tronco di un pesco; e le leggo negli occhi, oltre agli aggettivi di prima, anche dei pudori, di quelli di una volta, di quelli così antichi che trovano domicilio soltanto nei libri delle vecchie poesie.

“Ma, se è vero quello che dici,” fa lei, senza alzare lo sguardo, “vuol dire che vivrò per sempre in mezzo ai versi della mia poesia, che non morirò mai, che non morirò più…”

“E’ proprio questo il miracolo,” le dico pensando che sia arrivato il momento per farle dono della prova tangibile del suo esser divenuta immortale. E’ un libricino che si presenta niente male; lo comprai l’anno scorso a una bancarella di fiera presidiata da un marocchino gentile; ricordo che quando gli stesi i tre euro a monete, fece un sospiro tutto denti e furbizia; ne avrei scommesso altri mille su quello che stava pensando: ‘finalmente l’ho mollato a qualcuno, questo polpo di libro!’

Poi il marocchino riempì subito il vuoto lasciato dal ‘polpo’ con Come sedurre ogni donna in dieci lezioni, un volume certamente due volte più utile e ambito: è per questo che costava sei euro, e pure scontati.

Silvia rimane sorpresa già guardando la copertina col profilo di Giacomo in leggero rilievo, lo carezza, poi legge con la voce tremante: “I canti…” Alza gli occhi, mi ringrazia in silenzio e mi chiede: “E’ qua dentro che sto io?…”

“Certo, a pagina venti… puoi cercarti da sola…”

“No, il mio canto, lo voglio lasciare per ultimo,” fa lei cominciando a sfogliare; gli occhi le ridono e fuggono ch’è un piacere guardarli: corrono assieme a bambini che giocano a frotte, affiancano donzellette agghindate, seguono zappatori fischiettanti di sabato sera, volano dietro ad uccelli che festeggiano il sole che torna, e poi si alzano al cielo, incontro alla luna, silenziosa amica-nemica…

“E’ venuto il momento,” dice Silvia alla fine, e va a cercare la pagina venti con le dita che sono tornate pallide, esangui. Volta pagina giusto nell’attimo in cui un qualcosa scuote la chioma del pesco, e le nevica addosso una manciata di petali rosa. Non è stato un vento improvviso: è stata la donna vestita di nero, che non ha inciampato per niente, che anzi ha fatto un cammino perfetto, e con l’alito ha aperto il cancelletto di legno. Però, mi è sembrato che abbia esitato un momento prima dell’ultimo passo, come se avesse aspettato che Silvia arrivasse al verso che chiudeva il suo canto e le apriva davanti la vita immortale.

L’intervista è finita, non saprei dire se nel migliore o nel peggiore dei modi.

Il libro, glielo lascio tra le mani di marmo, pensando che forse le ho fatto il regalo più bello di sempre.

Per me, ne troverò un’altra copia; però, per cercarla, non andrò dai librai ben forniti: spulcerò di nuovo bancarelle di fiera, così farò anche un favore a qualche marocchino gentile: non è facile, oggi, smerciare un ‘polpo’ di libro come quello dei canti di Giacomo.

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