28 Marzo 2024

Rubrica: «Personaggi,avvenimenti e luoghi del nostro Sud» a cura di Vincenzo Ciorciari

17 gennaio – Giornata Nazionale del Dialetto e delle Lingue Locali

Qualche anno fa due articoli del Corriere della Sera, uno del 16.1.2015 (Ogni 14 giorni scompare una lingua),l’altro del 27.10.2014 (Istat: cala l’uso del dialetto in casa (e anche la seconda lingua arranca) riportarono la mia attenzione su un tema al quale mi stavo interessando da tempo e sul quale, nel mio ambito limitato, qualche volta intervengo in riferimento al dialetto di Sassano che corre lo stesso rischio.

Dialektos in greco è tanto: colloquio, conversazione, discussione a dialogo, disputa, linguaggio articolato, parlare ordinario, pronunzia particolare, stile, espressione, ossia tutto quanto concorra a definire un insieme di persone che si trovino a nascere in un luogo e, unite, si allargano sviluppandosi in gente, in tribù, in popolo accomunati da un solo parlare che si evolve in scrittura e questa in letteratura della quale, adulti, si servono per scrivere le loro leggi e le loro opere … da tutti intese allo stesso modo.

Ecco come quei popoli con le condivise articolazioni fonetiche, che a volte diventano lingua universale, si ingegnano a sopravvivere, a progredire, a dominare su altre genti. Al contrario, se ne sono dominati e subiscono altre lingue, la loro torna allo stato originario, spesso non si risolleva più e si sedimenta sui ricordi, sulle tradizioni, sugli affetti, uniche ragioni per restare attaccati a un patrimonio linguistico che non ha più linfa per interagire con altri.

Chiaro che è irragionevole pensare come siffato complesso e complicato processo evolutivo sia accaduto per dialetti di piccoli centri come i nostri ma gli stessi ricordi, tradizioni e affetti hanno contribuito a far ravvisare tracce sì consistenti da valere la pena riproporlo e trascriverlo, affinchè anche il nostro non fosse più (ricordo quanto lessi di Giuseppe Galzerano) parlato dai muti della storia, ai quali è stata negata la parola.

Coloro che affrontano lo studio di un dialetto, siano studiosi autorevoli e raffinati siano dilettanti, febbricitano nel cimento di riscoprire e difendere, far ricordare alle nuove generazioni e far conoscere ad altre genti le forme e le voci dialettali di ogni loro sia pur piccolo borgo, preoccupandosi prima di tutto di risalire alle origini delle parole mentre nel caso dei piccoli centri con scarsissime testimonianze scritte e extralinguistiche del passato, la questione delle origini si complica per un aspetto ma si arricchisce per un altro in quanto sovviene la poesia.

A ogni modo sin dalla nostra infanzia storica abbiamo subito e allo stesso tempo ospitato genti di razza, religione e intenzioni diverse e tutte hanno lasciato tracce che abbiamo saputo amalgamare con quelle di popoli che sono venuti appresso e tutte esse, alcune più robuste e altre più evanescenti, sono state metabolizzate con un miracoloso sincretismo secolare che ha dato origine, soprattutto, al nostro parlare.

Leggiamo nel Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia per servire alla storia de’ popoli, delle lingue e delle belle arti dell’Ab. Luigi Lanzi- Volume 3, pag. 504- Firenze 1825: Nella estrema parte d’Italia furono i Lucani nati da una colonia di Sanniti; e i Bruzj originati dai Lucani.

Leggiamo pure in Popolazioni autoctone e stanziamenti allogeni in TUTTITALIA: Campania, vol. I, Novara, 1962, pag. 22 di Giacomo Devoto: Gli Opici si trovano dunque al centro di una serie di comunità di tradizione linguistica indoeuropea, che possono essere raffigurate come le dita di una mano destra aperta. Il suo polso corrisponderebbe alle coste pugliesi, il pollice alla Sicilia con i Siculi, l’indice alla Lucania e al Cilento con gli Enotri, l’anulare al Lazio meridionale con gli Ausoni, il mignolo al Lazio dei colli Albani con i Latini. La Campania e gli Opici corrisponderebbero al dito medio di questa mano ideale.

A questo punto viene da aggiungere che la parte più preparata, colta e civilizzata dei primi furitani arrivati nel Meridione si fermava nelle città mentre in queste lontanissime periferie giungevano truppe e famiglie che non erano certo le elites in quanto a lingua e cultura eppure tutto ciò penetrava e metteva radici nella nostra gente che così sperimentava in continuazione l’avvicendamento di parlate di varie tribù ma, non avendo una struttura di lingua scritta, il suo patrimonio linguistico originario andava vieppiù diluendosi e modificandosi.

Ciò nonostante, nei nostri villaggi ancora possediamo spiccioli del greco e del latino delle colonie o delle province importanti, dello spagnuolo e del francese a Napoli, del longobardo a Benevento e a Salerno, dell’arabo in Sicilia ma non si parlavano certo tali lingue come nei centri che la Storia ha affidato all’eternità semplicemente perchè quì non esistevano corti, cancellerie, arcivescovati, accademie, commerci, quindi il dialetto recepiva espressioni linguistiche nelle forme più elementari e più spurie e su di esse si innestavano le modifiche più infedeli e le invenzioni più volgari, da vulgus, in quanto ad arbitrarietà linguistica.

In tal maniera “riveduta”, ogni lingua madre dei nuovi arrivati si innestava su ceppi preesistenti modificandoli e modificandosi allo stesso tempo, ossia si assisteva, ardita immagine, a una anabasi e a una catabasi dialettali e in tal maniera a rivoli, a piccoli rivoli, la Grande Storia, che ha interessato l’evolversi del linguaggio del Sud dell’Italia, penetrava sottilmente anche nei detti centri, permeadoli e lasciandovi tracce consistenti in comportamenti e manifestazioni consolidati tuttora quotidianamente sperimentabili.

Ci siamo svezzati con il latte del greco antico delle prime colonie, con quello di Roma e di quante altre stirpi pre o coesistenti fino a tutta l’età classica, con quello dei bizantini e dei monaci basiliani. Siamo cresciuti con quello arabo, germanico, gotico, longobardo, normanno nel periodo che va dal crepuscolo di Roma a tutto il Medio Evo. Abbiamo conosciuto lo spagnolo e il francese fino a metà del secolo XX e, infine, assaporato quello inglese da quasi due secoli, grazie alle emigrazioni in Inghilterra, Australia, Canada, Stati Uniti.

Accanto ai cennati fattori aggreganti mettiamo quelli disaggreganti che tanto ha pesato sui dialetti del Meridione, sperimentandosi negli ultimi decenni come la società modificata dal progresso, termine e concetto ripetuti con l’enfasi di una nuova Annunciazione, abbia visto, anche e purtroppo, l’affievolirsi di legami e di contatti diretti tra capifamiglia e discendenti i quali, per lavoro o per studio, si sono trovati in ambienti tanto lontani quanto convolgenti.

Lavoro. Al Nord o all’estero fu necessario accettare, uniformandovisi, leggi e abitudini, matrimoni ed educazione dei figli, relazioni e amicizie con persone e in realtà diverse o addirittura contrastanti con quelle conosciute nella famiglia orignale, dove genitori, nonni, zii, cugini, compari e vicini, proprio tutti, parlavano un idioma appreso appena aperti gli occhi.

Studio. I giovani si trovarono a vivere in città dove necessariamente assorbirono parlate e cadenze, a frequentare e a intimare con coetanei di altre regioni e quindi introitare ulteriori contaminazioni linguistiche: tutto ciò in un certo senso meccanicamente, mentre di proposito e per programma dovettero migliorare la lingua e levigare la fonetica, ma i meno assortiti di senso comune, per non dire altro, caddero in una trappola.

Pensando di affrancarsi da un certo provincialismo che pesava sui “terroni”, e come i “polentoni” lo facevano pesare!, più di qualcuno decise adottare come timbro linguistico il napoletano, il toscano, l’umbro, ecc. a seconda della università di frequenza ma non si domandava il poverino: non sono dialetti come il nostro anche quelli, sia pure con una ben superiore nobiltà gerarchica nella lingua? Non è il nostro ugualmente degno da essere indossato e esibito nella micro società nella quale quotidianamente siamo attori?

L’abuso in certe situazioni di “italianeggiare” per un certo atteggiamento snobistico, per una malintesa riverniciatura delle origini umili, portava a eccessi a volte grotteschi, come gli adulti che insistevano nel “violentare” il naturale parlare materno di pargoli quando articolavano le prime parole come le udivano dai vecchi e dai vicini e, infelici, restavano confusi e barcollanti già da infanti per le inutili insidie linguistiche che loro tendevano i genitori, i nonni e gli zii.

Banalità, può darsi, comunque non è giusto batterci molto sopra perchè, in fondo, erano … eravamo gente umile e sana con il desiderio, anzi la frenesia, anzi la febbre di emanciparci da secolare subalternità e credevamo che la prima tappa fosse “italianeggiarci” nella lingua.

Giornali. Qualcosa ma molto poco credo abbiano influito nè sulla difesa nè sull’ostracismo del dialetto, innanzitutto perchè l’identità meridionale è stata in questo caso in perfetta sintonia con quella nazionale e grazie a Dio anche noi siamo italianissimi: leggiamo poco e qualcuno anche meno del poco.

Televisione. Tirannica e assoluta, utile e benefica, a seconda dei casi, ha introdotto slogan o modi di dire che hanno usurpato il posto di quelli dialettali con non poco danno per la problematica che ci interessa, ma allo stesso tempo sono verità chiare come il sole i derivatini benefici dell’alfabetizzazione, dell’informazione, della formazione e dell’acculturamento poi. Di pari passo ha contribuito enormemente a nobilitare i dialetti maggiori collocandoli sulla ribalta nazionale, a rendere giustizia a letterature regionali e ad autori validissimi prima considerati cadetti, a fare conoscere di ogni angolo della penisola usi, gastronomie, canti e suoni e, quindi, tutta la terminologia dialettale a essi riferentesi.

In definitiva, vi sono state onde che dalla spiaggia hanno risucchiato arena e alla spiaggia hanno portato arena e le onde del risucchio sono stati fenomeni che, involucrandoci tutti pur senza colpevoli o responsabili, hanno portato all’indebolimento dei dialetti specie i cosiddetti “minori”.

Essi però, pur fragili perchè senza una struttura regionale o zonale, mostrano segni che ci permettono un certo ottimismo sulla loro sopravvivenza e grazie alle sfaccettature della loro natura fisio-biologica: la ricchezza lessicale impensabile fin quando non si scavi a fondo; la precisione meticolosa nell’incastonare in ogni variazione di vocabolo, di verbo, di aggettivo il senso peculiare ed esatto di ciò che si vuole intendere; la chiarezza e la metodologia nel distinguere e codificare le varie sfumature di una caratteristica umana.

Indagando, si scopre che avvenimenti, proverbi e modi di dire, usi e costumi, personaggi con vizi o virtù, con difetti fisici o malattie, approccio al lavoro, accettazione di fenomeni naturali e soprannaturali, gestione e convivenza con gli animali domestici e da lavoro, ebbene tutto ciò ha un termine proprio e specifico che, spesso, ha scarsa o nessuna simiglianza con il suo corrispondente in lingua ma si riallaccia a lingue classiche e straniere.

Ognuno di questi vocaboli ai forestieri e ai giovani potrà risultare incomprensibile o insignificante ma nel dialetto viene usato con tali specificità e gradazione nell’indicare un oggetto o un concetto da restare quanto meno meravigliati per come uomini di scarsa se non nulla istruzione abbiano saputo pervenire a tale cesellatura semantica di parole che, già di per sè sole, sono cultura … e per di più in piccoli borghi sprovvisti di tradizioni culturali e letterarie conosciute, lontani da accadimenti epocali che avrebbero potuto arricchirne il linguaggio. Il compendio di storia, di religione, di arte, di scienza, di tecnica, in sintesi di esperienze e di sentimenti, che si lega alle parole evidenzia la ricerca secolare di forme, di modelli, di riferimenti precisi con i quali creare vocaboli che si fossero adeguati in modo ben definito alla cosa o all’idea delle quali si parla.

Dalla divagazione sulla storia sotterrenea dei nostri dialetti, pizzico di antropologia fatta in casa, nasce la speranza che illumina chi ama il dialetto che parla e chi lo parla perchè lo ama e detta speranza trova nutrimento in Tutto può cambiare, ma non il linguaggio che ci portiamo dentro, come un mondo tutto esclusivo ed alla fine paragonabile all’utero della propria madre da Italo Calvino nel libro Eremita a Parigi.

La citazione, salvando le proporzioni, mi riporta a quanti paesani prospettavano le loro teorie sulla cui scientificità non opino ma mi piace accarezzare, ovvero che il nascituro non solo si nutre e respira attraverso la madre ma prima ancora di mettere la testa fuori dal ventre già la sente quando su di lui fa progetti o lo raccomanda a santi e madonne affinchè lo favoriscano e queste parole si trasformano nelle più dolci ninnananne, nelle più tenere canzoncine che blandiscono e carezzano un bocciuolo di cristiano che si affaccia alla vita, perciò già al nascere quel bimbo, che riesca pure il più testone, mezzo conosce la lingua degli avi.

Da una citazione culturalmente altolocata e da una teoria “casereccia”, impastata solo di affetto e solo con affetto lievitata, viene fuori tanto sollievo niente affatto in contraddizione con quella di tristezza che prima affiorava sulla sorte e sul tramonto dei dialetti e ciò grazie anche a una gestione più attenta e ricettiva della cultura da parte delle Istituzioni e a un numero sempre crescente di studiosi nel rivalutare i dialetti, quelle operanti con sostegni a volte consistenti, questi con minuziose e coscienzione ricerche che affrancano i dialetti da un’ingiusta subalternità.

Gli steccati del ghetto vengono abbattuti e questa lingua, che ci ha plasmato i primi pensieri, le prime emozioni, le prime paure, le prime decisioni, le prime realizzazioni si propone in tutta la sua freschezza e si riscatta dal vassallaggio sofferto. Il ricercatore e lo studioso in genere, che sappiano servirsi anche del dialetto, arricchiscono la potenzialità della loro docenza, potenziano la ricchezza del loro linguaggio, allargano la cerchia dei seguitori semplicemente perchè il dialetto di ogni zona ha delle peculiarità cellulari di penetrazione comunicativa introvabili nella lingua nazionale: come chi ama il dialetto vorrebbe esclamare su qualsiasi oratore o scrittore: “Poverino, sa solo parlare in italiano”!.

Non resta che impegnarci sempre più gente nel progetto di ripescaggio, restauro e rivalutazione dei dialetti, sia per motivi culturali sia per amore alla propria comunità, quasi come ricorressimo al pronto soccorso linguistico per allontanare il pericolo che essi si vadano progressivamente indebolendo fino a perdersi, dal momento che restano, non fosse che per motivi anagrafici, sempre meno quelli che lo parlano, anche nelle comunità più piccole o rurali.

Il semplice tentativo di metterci a rattoppare nella parlata degli avi qualcosa di simile riuscito ai grandi della letteratura dovrebbe farci insistere nella ricerca sui nostri dialetti e mi auguro che sempre più conterranei sappiano parlare e scrivere nel proprio, che sappiano ricordarli e tramandarli e anche amarli più di me e molto più di me si manifestino e vengano conosciuti, dal momento che … ma vi sono?

Sì, vi sono. E più di uno. E bravi. E bravini. E bravissimi.

Estratto da Il dialetto sassanese capitolo di Sassaneggiando. Memoria e dialetto di imminente ultimazione.

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