13 Luglio 2025

GIUSEPPE PALLADINO, Il CANTASTORIE CILENTANO: oltre le barriere del localismo misoneistico

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GIUSEPPE PALLADINO , Il CANTASTORIE CILENTANO - Laura CUOZZO

“Prego, avvocato, le faccio strada”, cosi’ il professore Giuseppe Palladino vicino alla novantina, autore e artista di nicchia, tra gli ultimi romantici della tradizione musicale  cilentana e a tratti napoletana, guida il suo amico Tommaso Cobellis attraverso le stanze della sua villetta a Vallo della Lucania . Un ospite gradito e inatteso, giunto dal Cile alla ricerca di documenti musicali da consegnare all’ associazione “MUSICAHUAYNO mp3” internazionale, che li diffonda nel mondo.Scendono scale di marmo, passando per studioli di pittori e presepisti, anticamere e corridoi pieni zeppi di mensole che scoppiano di riviste, libretti, statuette e cimeli musicali; giungono infine all’ ingresso di un antro museale, cuore pulsante  della casa, rifugio sacro di una specie umana in via d’ estinzione (quella degli ultimi gentiluomini), un bunker segreto che separa il mondo esterno rumoroso e veloce da quello intimo, riservato del poeta.Vi entrano in punta di piedi per non sgualcire la storia personale  meticolosamente ordinata giorno per giorno dal re e custode di quella dimora, un ordine necessario per chi voglia accingersi ad una corretta  lettura ed interpretazione delle  tappe evolutive e caratteriali del suo autore. Si possono ancora ammirare i sogni giovanili  intrappolati nelle corde di chitarre e mandolini esposti accanto al pianoforte; sembrano parlare di giorni felici, di comitive di amici sgangherati che condividevano lo stesso codice musicale, testimoni che  sorridono da fote ingiallite d’ epoca sparse un po’ ovunque sul mobilio; e si respira un sudore  intellettuale, tipico di certi ricercatori precisi, centillinatori della perfetta armonia, limatori di fraseggi musicali a mo’ di terzine di Dante. Quel luogo sacro reclama attenzione e rispetto. Il virtuosismo dell’ artista Giuseppe Palladino e’ tutto condensato nel suo capolavoro “Il cantastorie cilentano”. Si mette comodo alla scrivania e da li’ accenna appena alle recensioni di illustri critici e letterati verso una cosi’ lavica produzione, senza presunzione , solo per fornire ulteriori dettagli a garanzia di una qualità gustata da palati stranieri, che a dire il vero si sa, – nemo profeta in patria est -. Il Professore Vincenzo Aversano nella rivista “Aeropago letterario” del giugno 2014 descrive l’ arte del professore Giuseppe Palladino  –  una mistica romantica, positiva e borghese  –  

…ciò mi obbligano ad affermare già da subito essere egli poeta poliedrico, pluritematico, polimorfo e prolifico, in una parola poeta colto. Dove il termine poeta , crocianamente inteso, riguarda anche la qualità insita nella sua produzione di disegnatore – pittore, commediografo, autore di spettacoli teatral – musicali, poesie in lingua italiana si napoletana (oltre che in dialetto cilentano) esecutore chitarrista  e affini. Al di là della poesia satirica con cui descrive il piccolo mondo borghese della cittadina vallese vale la pena citare integralmente il sonetto  magnifico “Ngopp’ a’ stu munnodove il suo disagio sociale di persona dabbene in mezzo ai lupi si sposa col desiderio di vero amore.

‘ NCOPP’ A ‘ STU MUNNO 

Ncopp’ a ‘stu munno io ne vero gente, ‘re tutt’ i tipi, tutt’ i qualita’ : belle, brutte, rapeste, ‘ nteligente, c’ o buono e ‘ o male c’ a natura ra’ . Pe’ come ‘ i vero so tutte contente , si ce so’ guai  ‘i sano cummiglia’ …e accussi’ tutti quanti alleramente  pigliano a vita com’ han ‘ a piglia’!  Sul’ io n’ u fazzo…paro nu mazziato…e basta niente pe’ me ‘ ntusseca’! A causa ca so’ sempre ammussato e’ sempe ‘ a stessa! Che ‘ nge pozzo fa’? Me manc’ amore, cheddo vivo, ardente! E si ‘ u tengo…nun è sufficiente!

“Tanta roba , maestro!”, esclama il  visitatore, che non gli par vero di trovarsi dinanzi a così ben assortita abbondanza di Dio, se non nascondesse la stessa una così scomoda foga d’arsenale di guerra; spartiti, canzonette, cartelle gonfie di  poesie,  schizzi a matita, commedie, bozzetti di costumi e scenografie,  canovacci satirici mai pubblicati, soprattutto, mai andati in scena, perché bollenti, lavici, critici e accusatori del  finto perbenismo che “s’accomoglia” dietro le apparenze e finte lusinghe “c’ accussì se tira a campa’ inda sta vita”. Lìavvocato Cobellis è spaesato, ma assai eccitato “Qua, tre giorni non  bastano!”. Il professore Palladino non si scompone, anzi serafico si pone a descrivergli le tappe di un viaggio a ritroso nelle sue passate e comiche stagioni artistiche. Apre cassetti, tira giù cofanetti dagli scaffali della biblioteca in noce. È un  archivio  storico che abbraccia il il XX e XXI sec.; le infinite  produzioni  sembrano reliquie di santi, sangue secco che torna a  liquefarsi in ampolle di mistico cristallo. Sui muri dell’ abitazione narrano istanti di gloria e merito le preziose medaglie d oro zecchino, dischi d’argento, coppe, pergamene, dediche, riconoscimenti vari e quadri di nudi, nature morte, scorci di natura incontaminata dei luoghi dell’ anima, quel Cilento bello e terribile; ovunque la sacralità del ricordo, incute timore e rispetto”.

“Questa è una lettera che m’inviò il Prof. Vincenzo Guarracino, Direttore della Sezione Letteraria Case Editrici Mondadori e  Bompiani, gliela leggo con piacere. Non mi par vero di aver meritato una così spietata critica positiva 

– Il Palladino Cantastorie Cilentano che ci narra dei moti cilentani, –  “… È un grande personaggio del Risorgimento, non quello ufficiale e conclamato, bensì quello fieramente nostro, cilentano, Giuseppe Tardio , avvocato e legittimista borbonico di Piaggine, e comandante di una banda armata di ribelli che combattè per l’indipendenza delle Due Sicilie tra il 1862 e il 1863, prima di finire nel terribile penitenziario di Favignana. Dopo il rilievo storico, che si merita conferitogli a suo tempo  da una appassionata ricostruzione biografica ad opera di Antonio Caiazza (Giuseppe Tardio, Tempi Moderni Edizioni, Napoli, 1986) ecco ora una commedia  musicale di Giuseppe Palladino a rendergli l’onore che merita, rivendicando orgogliosamente, fin dal titolo – Simo breanti! – , la sua qualità di fiero oppositore  del “fazioso dispotismo di un regime illiberale”.  Palladino ne ripercorre la drammatica epopea in undici rapide scene, inframmezzate di intensi momenti musicali, a partire dalla cella del carcere di Favignana, dove Giuseppe Tardio riceve la visita di due studiosi del brigantaggio post-unitario, intenzionati a intervistarlo sulle ragioni della sua ribellione e ai quali il fiero ergastolano racconta come in una sorta di flash-back la propria avventura all’ insegna sì dell’efferatezza ma soprattutto dell’onore e dell’amor patrio. Il racconto prende le mosse da quando all’indomani del 1861 decide di andare a Roma per incontrare Francesco II, lo spodestato re delle Due Sicilie, per prospettargli il suo ardimentoso piano per scacciare dal regno l’ esercito piemontese invasore. Particolarmente interessante, nella scena III, l’incontro con il Re, il quale a Tardio che gli sottopone il suo piano di sommossa non solo dà la sua compiaciuta approvazione, fa anche profetico preannuncio delle tristi conseguenze della condiscendenza e accettazione da parte di troppi dell’invasione (“A loro non rimarranno neppure gli occhi per piangere” esclama il sovrano). Il racconto prosegue con la storia delle imprese di Tardio e della sua banda di braccianti affamati, di sbandati dell’ esercito borbonico, di patrioti e criminali, assieme ai quali il patriota piagginese vagabonda nelle terre tra il Gelbison ed il Cervati, sotto l’occhio attento di una giornalista inglese che al suo giornale di Londra invia particolareggiati resoconti della loro attività, finché non viene tradito da due compagni allettati da una taglia di 500 ducati. Catturato e condannato dapprima a morte poi all’ ergastolo, accetta con rassegnazione la condanna , quando l’Unità d’Italia è ormai un fatto compiuto. Esemplare è la conclusione del colloquio con i due intervistatori, nella scena XI, dove Tardio esprime con la lucidità dategli anche dalla sua cultura una verità che la storiografia successiva , quella non ossequiente al potere , non può che sottoscrivere: “Agli italiani la mia vita sembrerà malvagia e diranno che sono un criminale…ma se le cose fossero andate diversamente e a vincere fosse stata la mia parte, il giudizio su di me sarebbe stato totalmente diverso, malgrado qualche eccesso di zelo. Ma la storia la scrivono i vincitori e i loro giudizi debbono prevalere. Mi voglio illudere che negli anni a venire , quando le ferite saranno rimarginate, se mai lo saranno, qualcuno voglia raccontare la mia vita, sottolineando non solo gli errori…”. Ecco, ha trovato Tardio finalmente giustizia: a fargli giustizia è  Palladino, è  Caiazza, sono tutti quelli che come me si emozionano dinanzi ad una storia di passione. È  una storia davvero impensata ed emozionante, questa del’ arte di Peppino Palladino. Un’arte della parola e della scena  che rivela la matura e sorprendente capacità di dar voce ad una lucida visione di fatti e personaggi  di una storia che è stata travisata, rimossa, dimenticata, e cui solo forse Omar Pirrera, anche lui per questo ahinoi rimosso, aveva osato dar espressione e dignità nel suo memorabile “oratorio” – Morire con il sole – edito gia’ diversi anni fa nel 1995 dal bolognese Book Editore, in cui rievocava l’ ultima drammatica notte del canonico De Luca, martire dei moti cilentani del 1828. Io, Peppino Palladino, ho avuto la ventura di ascoltarlo una volta, una raccolta sera d’inverno  in un’intima “cave” vallese: cantava Brigì Bardò. Emozionante oltre ogni dire. C’ero andato per caso, assieme a mio cognato Nello Tesauro, Vincenzo Bruno aveva fatto il resto: come sempre interprete sollecito di tanti miei inespressi desideri, aveva favorito un nostro incontro. Mi testa in mente quel primo contatto reale. Prima, soltanto occasionali incontri. Poi, una casualità che ha un senso, una sua causalità. Come una casualità diventata necessaria era stato il primo incontro a 25 anni ed oltre fa con Omar. In una futura, auspicabile storia della cultura e della letteratura del Cilento non può che competere a loro, a Peppino e a Omar ( ma anche a Vincenzo) la qualifica di autentici “cantastorie” cilentani (mutuando il titolo da un altro testo), di interpreti cioè di un’anima insieme alta (Pirrera) e umile ( Palladino), memore e orgogliosa della sua antica civiltà, ancorché arroccata in una selvatica, impervia inammissibilità: una cultura fatta di attaccamento alla terra e alla “roba”, di umoralità pronta ad esplodere in ire incontenibili, ma anche di volonta’ di proiettarsi oltre la siepe di un LOCALISMO MISONEISTICO, per delineare orizzonti di utopica generosità che potrebbero offrire davvero a tanti  spunti di riflessione se non anche modelli cui ispirarsi.

Il professore si solleva dalla scrivania e prosegue ” …questo mio capolavoro, scritto in due versioni,  il primo  “Il cantastorie cilentano” piu’ a carattere generale ed il secondo “Simo breanti” invece più dettagliato e colorito furono rappresentati l’uno in 5 anni per ben 60 volte dal comune di Pisciotta fino a Salerno sotto la coo-direzione artistica dell’attuale Mauro Navarra in teatri e piazze sempre gremiti, l’altro invece soltanto due volte a Vallo della Lucania, al teatro “La Provvidenza” e nel chiosco conventuale di  Palazzo di Cultura con accompagnamento canoro per le parti femminili a cura della cantante lirica Rossella di Vietri (tra l’ altro venuta con me negli studi di Rai 1 ad una puntata di Unomattina dedicata al Cilento con il mio accompagnamento musicale) e per le parti maschili a cura dell’ amico Paolo Carbone. Non fu possibile soddisfare in pieno l’aulicita’ artistica dell’opera con presenza in  contemporanea  di sestetto e attori cantanti, ma si spera che un giorno l’ opera possa assurgere a tale completezza orchestrale e canora. Tra le numerosissime  commedie non storiche scritte da me le debbo segnalare, caro avvocato “Na bella jurnata” tratta da un racconto che mi faceva sempre mia madre Carmela Lenza per tutti “Tetta” che  parla di una faccenduola molto simpatica legata ad un fidanzamento ostacolato poi trionfante, una  commedia incentrata sui valori del’ amicizia e dell’ amore genuino, oggi sempre più rari visto i costumi confusi e precipitati nel consumismo smart di sesso e false illusioni. Ho piu di 300 canzoni musicate qui, guardi! Quale le posso suggerire? Sono per me una più sfiziosa dell’ altra. Ho imparato a suonare per necessità di poetare in rime la bellezza della vita, prima il piano con un maestro, poi  la chitarra d’autodidatta a casa, chiuso nella mia stanza. La preferii al primo perchè strumento a corde  piu’ trasportabile, la chitarra è  sì , più democratica, leggera, versatile come la mia anima; ed  ho imparato a dipingere sempre da solo per ispirazione, osservando ogni tanto uno dei più grandi pittori vallesi, Giovanni Fatigati. Poiché abitavamo a 20 metri di distanza,  mi recavo spesso nel suo studio. Per non farmi cacciare addirittura rubavo dal negozio di mia madre qualche caciocavallo o ricotta fresca per fargliene dono così potevo osservarlo in silenzio e rubare la sua  tecnica. Ero ammaliato da come muoveva i pennelli sulla tela. Da mio nonno falegname appresi l’arte di montare scenografie. Non mi vergogno di dirle che mi reputo da buon italiano  anche un discreto  cuoco. Un giorno cucinai un piatto improvvisato per alcuni  miei ospiti non attesi: le tagliatelle del pittore. Aprii il frigo e presi ciò che trovai per  cucinare un piatto di ventura che si rivelò succulentissimo. Carote tagliate a rondelle messe a “pippiolare” in un tegame con olio extra vergine d’oliva, cipolla  e prosciutto crudo a straccetti per finire con una bella spolverata di parmigiano. Ci vuole poco, sa per accontentarsi nella vita. Basta attingere alla tavolozza dei colori primari. Ognuno li   fonde e mischia a piacere per  trarne mille sfumature. Il palato mio e dei miei ospiti  precipitò  in un climax salato dolce caramellato dove l’uovo della tagliatela gialla come il sole, andò a nozze con l’ottimismo della carota aranciata anch’essa dolce, mentre  la passione rubino del prosciutto evaporò con gli effluvi del vino e non  si scollò più  dal verginale velo di  grattugiato bianco latte. L’avvocato Cobellis  è cotto e sazio di tanto materiale sciorinato a fiumi senza pausa; si commiata dal professore, pozzo senza fine da dove zampilla creatività infinita ogni secondo di vita e giura di  tornare l’indomani. Ha da chiedere su Dodo Grenaglie del quale ha intravisto una dedica, imitatore perfetto di Totò, stimatissimo da Arbore e presentato al Professore Giuseppe Palladino dal giovane attore vallese Murino, all’epoca frequentatore dei Giuffrè in quel di Roma. Ha da riempire la stiva  d’aereo  che lo riporterà in America, lui turista delle radici, a caccia  di ogni genere di tesori cilentani, per distribuirli come chicche a chi  oltreoceano c’è  rimasto per bisogno “ca sempe penza a sta terra abbandonata, sta terra  n’grata,  sta terra  re sole, mare e ammore” …no, non  sono souvenirs…sono pezzetti di radici che reclamo innesti ovunque su sta faccia della terra .

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