Si chiude l’era Spalletti


Finalmente si chiude la farsa sul commissario tecnico più inadeguato d’Italia. Mentre la nazionale più prestigiosa del mondo ingaggia il miglior allenatore, Carlo Ancelotti, dal 2023 la federazione non ha saputo far altro che cercare alibi alle rappresentazioni teatrali di una gestione scadente e inappropriata.
I successi di questa nazionale, stinta nel colore e nell’anima, erano presenti soltanto nelle recite a memoria di una stampa conformista e genuflessa, che ha contribuito a realizzare danni irreparabili.
Pochi segmenti dell’informazione hanno da subito espresso rilievi e critiche sulla Nazionale di Gravina, Spalletti e Buffon.
Ispirandosi ai princìpi di un’informazione indipendente mai ancorata a sofismi e pregiudizi, La Voce del Meridione – direttore Francesco Sampogna – un anno fa chiedeva l’azzeramento totale del management.
Anticipando, che se ciò non fosse avvenuto, difficilmente la troika avrebbe condotto la banda ai Mondiali.
Facendo calare il sipario con largo anticipo su una gestione tra le più indecorose del Club Italia.
Spalletti, disastro annunciato


di Pasquale Scaldaferri
Gli dei del pallone hanno sempre ragione.
La scalcagnata nazionale di calcio torna mestamente e meritatamente a casa, dopo che la fortuna che l’ha accompagnata in questi mesi -fino al gol immeritato nell’ultimo secondo contro la Croazia- le ha rovinosamente voltato le spalle.
Ma se un arbitro men che mediocre avesse concesso un sacrosanto rigore all’Ucraina nell’ultima gara di qualificazione all’Europeo di Germania, la banda Spalletti avrebbe dovuto affrontare le forche caudine dei play off e chissà se ci saremmo risparmiati questa figuraccia teutonica.
Perché quella nazionale non meritava di qualificarsi direttamente in Germania. Ma chi ne accompagnò il viaggio forse immaginava che l’Ucraina -impegnata in una partita ben più seria e drammatica- non avrebbe mai inscenato una plateale protesta.
Neppure quell’episodio, però, ha fatto riflettere il toscano di Certaldo, che dall’alto della sua striscante prosopopea ha continuato a parlare dei meriti della sua formazione, costruita male, gestita peggio e mai assemblata. Sempre simile a una macchina da sottoporre a continua revisione. Sbuffava, ma non partiva. Il motore dava noie, ma il meccanico non è mai sembrato appropriato al ruolo.

Nonostante un’informazione puerile e faziosa che cantava il peana, ma non riusciva a comprendere quanti danni avrebbe arrecato al permaloso commissario tecnico.
Scappato da Napoli con l’alibi di un anno sabbatico e poi folgorato dalle lusinghe di Casa Italia, il filosofo delle banalità che confonde concetti illuminanti con deliranti congetture, è un alchimista capace di esprimere magistralmente schemi opinabili al microfono di qualche cronista compiacente, soprattutto se deve entrare in conflitto con professionisti dell’informazione che hanno la creanza di confutare le sue cervellotiche disamine.
Il gioco di questa nazionale -senza intelletto, senza anima, senza cuore- era paragonabile a quell’ improbabile e squallida divisa sociale che indossava l’inadeguato Ct, simile a una giacca da camera che si indossa in una corsia d’ospedale, piuttosto che la verace rappresentanza dell’italian style.
Un commissario tecnico che in ogni immagine appariva spaurito, con quegli occhi che accompagnavano la gestualità delle sue sceneggiate.
Il supporto dei corifei del servilismo non è servito a nulla.
Nessun rimedio alla figuraccia poteva trovare posto nell’indecorosa campagna di Germania.
Il suo capo -il re travicello, Gabriele Gravina, responsabile principale dell’ennesimo fallimento della sua gestione- sprofondato in tribuna autorità, accanto al fratello d’Italia, Ignazio La Russa, dopo una notte insonne è pronto a parlare.
Sperando, finalmente, che insieme con i suoi accoliti pronunci una parola attesa da tutti i tifosi italiani come una gloriosa vittoria: dimissioni.


L’analisi. La Nazionale, Gravina e i guitti


di Pasquale Scaldaferri
La penosa e attesa eliminazione della peggiore Nazionale di calcio degli ultimi 40 anni, guidata da un inadeguato commissario tecnico, stitico nel trasmettere linfa a un coacervo di giocatori e schizofrenico nella selezione dell’organico (la scelta di Fagioli, dopo una lunga squalifica per scommesse e lontano dai campi per oltre 7 mesi, privilegiato rispetto a Orsolini e Politano), la dice lunga sul dogmatismo autolesionista di Luciano Spalletti, arrivato a questo appuntamento continentale in una totale confusione mentale.
Ignaro di essere seduto sulla panchina di tre illustri e vincenti predecessori (Vittorio Pozzo, Enzo Bearzot, Arrigo Sacchi), non è mai riuscito a conferire un’identità agli azzurri, privi di personalità, vuoti di idee, ricchi solo di vistose e preoccupanti carenze tecniche e tattiche. E anche quella sorta di santificazione del portiere che si è celebrata all’epilogo del misfatto, fotografa con nitore irrefutabile il provincialismo che attanaglia l’italico movimento calcistico, stampa compresa.
Basta chiedere a qualche addetto ai lavori dalle parti di Parigi per comprendere quanto sia fazioso e parziale il giudizio sull’estremo difensore di Pompei, che ad onta della struttura fisica non ci sembra che abbia mai fatto miracoli calcistici nella sua sopravvalutata carriera, anzi spesso si è contraddistinto per colossali papere che soprattutto nel Paris Saint Germain hanno strozzato traguardi europei vincenti dei francesi.
Al di là del fallimento sportivo e del miserando giustificazionismo, dal peloso minuetto dei “padroni del vapore” alla stucchevole pantomima, l’esclusione agli Ottavi -peraltro acciuffati in extremis e senza merito- si somma alla doppia bocciatura consecutiva dai Mondiali 2018 e 2022.
L’assenza di progettualità, la penuria di programmi e la visione tutt’altro che lungimirante sul piano delle riforme da sempre enunciate -attraverso improbabili e impalpabili task force- ma mai realizzate, sono la sola mission sin qui adottata dall’inquilino di via Allegri a Roma.
Eppure l’attuale governance del calcio italiano era nata sulle ceneri dell’altro disastro sportivo in salsa svedese dell’autunno 2017, con il presidente federale Tavecchio e il commissario tecnico Ventura collocati sulla graticola e costretti a rimettere il mandato per la mancata qualificazione a Russia 2018.
Sin dal suo insediamento, Gabriele Gravina da Castellaneta, ma abruzzese d’adozione, ha recitato il ruolo del re travicello, incapace anche di elaborare un manifesto di proposte, da trasformare in obiettivi da perseguire.
Ancorato alla sua elezione del 22 ottobre 2018 che con il 97,2% dei voti (le maggioranze “russe” evocano sempre stagioni inquietanti) lo catapultava alla massima carica della Federazione Italiana Giuoco Calcio, ad oggi non ha saputo porre in atto neppure la più elementare strategia operativa, in primis il varo di un innovativo format dei campionati (a partire dalla serie A, con la riduzione delle squadre partecipanti da 20 a 18, o addirittura a 16 club) per non ingolfare il calendario e dare maggiore spazio alla Nazionale.
Ma GG, evidentemente, oltre a godere di buona stampa e circondarsi di prestidigitatori dal raffinato talento nell’intingere la penna nella saliva, riesce anche ad ipnotizzare frotte di politici bipartisan.
Non si comprende, infatti, come nel 2019 abbia ricevuto a Bruxelles dal parlamento europeo -non nuovo alla vacua retorica- il premio “La Moda veste la Pace”, per le attività di contrasto al razzismo nel calcio svolte durante il suo mandato.
Peccato che i privilegiati studiosi della circonferenza del cetriolo -esangui ispiratori del “parmesan”, animatori e facitori di strutture elefantiache- non avessero l’esatta cognizione e la lucida percezione della feccia che spadroneggia negli stadi italiani, godendo e abusando di totale impunità e agendo in una sorta di “zona franca”, maramaldeggiando contro le forze dell’ordine e inoculando quel mefitico veleno di teppismo, razzismo, omofobia, discriminazione territoriale, che non solo non dovrebbero trovare spazio negli ambienti sportivi, ma andrebbero estinti in qualsiasi società civile.
Deficit di programmi, scelte senza raziocinio, gli elementi distintivi di una federazione più attenta ai formalismi, capace solo di favorire politiche di piccolo cabotaggio a danno dell’intero sistema, squassato da polemiche insipienti e da guasti incalcolabili.
Fino a quando il governo del calcio non provvederà ad una ristrutturazione globale, valorizzando la risorsa ineguagliabile dei settori giovanili, l’Italia non tornerà ai fasti antichi. Ma la strada è ancora lunga e irta di ostacoli. Almeno a leggere le regole cervellotiche partorite da GG e dai suoi epigoni. Per accedere al supercorso per allenatori di prima fascia si è pensato di varare un protocollo bislacco che prevede non il merito, la capacità, lo studio, l’aggiornamento, la formazione, bensì la militanza -da calciatori- nei campionati di serie A o B.
Una bizzarrìa che se fosse stata in vigore negli anni scorsi, avrebbe precluso panchine prestigiose agli atleti dilettanti -ma successivamente divenuti allenatori di successo- del calibro di Arrigo Sacchi, Helenio Herrera, Jurgen Klopp, Zdenek Zeman, Sven Goran Eriksson, Alberto Zaccheroni. L’ennesimo e sconcertante autogol di una federazione brava solo nel navigare a vista.
Sul fallimento europeo ci saremmo aspettati una chiara e inequivoca presa di posizione di Gravina e Spalletti.
Ma l’ improntitudine di entrambi miscelata alla disgustosa albagia dei perdenti e al nauseabondo vittimismo degli ignavi, è risultata più avvilente dell’ indecoroso atteggiamento nella capitale tedesca, terra di disfatta sportiva e non più luminosa diapositiva a rappresentare dal 2006 il cielo azzurro sopra Berlino.
La coppia già scoppiata non ha saputo organizzare (Gravina) e plasmare (Spalletti) uno straccio di squadra, ma ha adottato un gioco coeso soltanto nella decisione di non rimettere il mandato.
Una scelta azzardata e che probabilmente lancerà l’Italia a battere un altro record poco invidiabile: terza esclusione consecutiva dal Campionato del Mondo. Con questa classe dirigente del calcio, infatti, difficilmente gli azzurri approderanno nel 2026 al mondiale di Stati Uniti, Canada e Messico.