13 Giugno 2025
Novi Velia e gli stornelli cilentani di Laura Cuozzo

Rubrica “PIATTI & DIALETTI” Arti e Sonetti a cura di Laura Cuozzo

Ho intervistato con piacere la mia amica professoressa Rosa Pinto, che ha una voce morbida e dei modi fatati tali da smuovere le corde dell’ anima. Per lei, porsi a sedere sulla seggiola antica di paglia di famiglia tra ninnoli, fotografie vintage e specchi, e’ l’inizio di un viaggio affettivo. Il filo della memoria è tanto lungo che a volte si spezza come quando si fila la lana , che ci si deve fermare e ricominciare senza fretta, immersi in uno spazio soggettivo senza tempo. Per la prof.ssa Rosa Pinto, filtrare i ricordi della sua infanzia e giovinezza vissuti nel.borgo di Novi Velia è emozionante; le appare il volto antico di sua madre descritta anche nel suo romanzo d’ esordio “Le storie perdute” (edizione Silva 2021) in cui sono descritti vari fattarelli, avvenimenti tratti da storie vere di epoche lontane, di in un mondo di valori e genuinità che non è più. Oggi , se il vivere non è faticoso come ieri, sicuramente appare più difficile per il senso di precarietà e superficialità che affligge la societa’ , anticamente resilente come l’ ortica o il rovo di montagna.”Ma tu li vuoi sentire gli stornelli? Alcuni fanno piangere per quanto sono struggenti, quelli delle donne e bambini sussurrati agli uomini che partivano per la guerra o emigravano: una prima corriera se li portava via, poi la nave o un treno. Era come una guerra la vita, la guerra del pane, della dignità per sè e per i figli. Tanti figli e quanti se ne faciano e veniano su bene, cu schiaffi e amore” E allora ueine’ mo te fazzo rui cunti ! Nge ne stanno re canzungelle, i stornelli, mamma e quanti n’ aggiu sentuto. Questa degli stornelli è una tradizione orale ormai quasi del tutto dimenticata, ma da recuperare per l’ importanza del dialetto che altro non è che il sentire comune dei nostri antenati

“Prof.ssa Pinto ci può spiegare a quale genere della tradizione orale appartengono gli stornelli cilentani?”

Le canzoni popolari, in genere raccontano la vita comunitaria di un popolo, un borgo, un territorio. Le canzoni cilentane, in particolare, che siano stornelli, strambotti, serenate, filastrocche accompagnano l’ uomo in tutto l’ arco della sua vita, dalla nascita alla vecchiaia, regalandoci la saggezza di un popolo ed il quadro storico della vita di un tempo. Si tratta di un genere di poesia popolare composta da quelle persone del popolo più ricche di fantasia e capacità di mettere in versi sentimenti , emozioni e sensazioni dettate da momenti particolari (matrimoni, feste religiose, riti propiziatori, rivalità amorose). Gli autori di questa poesia autentica sono dunque le persone del popolo che traducevano in versi i sentimenti eterni dell’ animo umano: l’amore (spesso tormentato ), la fatica del lavoro, la consolazione e l’ appagamento che ricevevano dal cibo, la sventura “a sciorta” che era la risposta più semplice ed immediata agli eventi tristi della vita, l’allegria che era un sentimento mai vissuto in solitario, ma condiviso tra tante persone. Fino a qualche tempo fa erano gli anziani i depositari di questa che non è sottocultura, bensì tradizione orale, la stessa che troviamo alla base dell’ Iliade ed Odissea.

“Prof.ssa Pinto, ha dei ricordi familiari in particolare legati a questo genere di canto orale?

La suggestione, il fascino di queste composizioni spesso estemporanee, ho avuto modo di apprezzarle fin da ragazza quando ho ascoltato zi’ Pasquale Calandrieddo, Carmelo Guzzo, ‘ U Bosso.Erano loro, “i giganti dell’ aria” di Novi Velia che con vivida memoria cantavano motivi o recitavano versi, mentre chi li ascoltava cercava, nelle assonanze , nelle rime , un modo di vivere di un’ epoca passata. Mia madre stessa recitava nella sua versione questo madrigale: nu jorno fui invitato a giudicare la bruna e la bionda. La bruna me paria nu grande fiore, la bionda ‘na lattuga tenerella. Ed io me la pigliera sempe cu’ la fortuna sempe recenno ca la bruna è bella!

Altra versione “nu juorno fui chiamato a jurecare, mmiezzo la chiazza ronne zitelle: a jurecare a’ janca e a’ bruna , pe vere’ re ste ddoie qual e’ a’ cchiu bella.
A’ bruna me paria nu grande fiore, a’ janca ‘na lattuga tenerella; s’ avissi juricare la fortuna, sempe la ria a te, brunetta bella”.

Esistono sull’ argomento varie pubblicazioni. Ho trovato molto interessante e ricca nei contenuti la ricerca riportata nel testo “Voci e Volti del Cilento” effettuata da un gruppo di cultori sotto la guida del prof. Amedeo La Greca, Edizioni Pasquale Schiavo, Agropoli ( SA). A fine intervista leggiamo insieme qualche stornello da loro trascritto di antica memoria perduta.

“Prof.ssa Pinto, il ministro dell’ istruzione Valditara sta dando importanza alla reintroduzione a scuola dello studio del dialetto. Anche lei è d’ accordo su tale scelta? La costruzione dell’ identità nazionale, regionale, comunale passa anche attraverso lo studio della vulgata popolare a scuola ? Ciò potrebbe portare non ad una visione globale di italianità già contemplata nei programmi scolastici nazionali, ma ad un campanilismo orientato alla salvaguardia orgogliosa delle proprie radici e tradizioni?”

È da tempo che si parla d’ introdurre nei programmi scolastici lo studio del dialetto, di attenzionare la cultura popolare. Ricordo un recente, acceso dibattito sulle pagine del periodico “Cronache cilentane” in seguito alla proposta avanzata dal compianto dr. Domenico Chieffallo, eminente storico meridionalista, che auspicava, appunto, lo studio a scuola della cultura popolare del Cilento e quindi la conoscenza del dialetto allo scopo di evitare l’ oblio di siffatto patrimonio e nel contempo arricchire la conoscenza degli allievi attraverso un ritorno alle origini della lingua parlata. Credo che in qualche scuola questa proposta abbia ricevuto attenzione ed abbiano preso corpo attività didattiche finalizzate. A questo punto, mi auguro che l’ argomento proposto anche da lei dott.ssa Laura Cuozzo, curatrice di questa rubrica ed appassionata di story telling dialettale itinerante con i bambini portati in giro per il Cilento già da tre anni possa essere lo stimolo giusto per trattare la tematica partendo dai canti popolari, strumentistica associata e balli tradizionali.

“Canta!”

Ietti a lu mbierno e mi dissero: Canta! Non potietti canta’ pe’ tenemente: ‘ ngera na donna ca era bella tanto e combattia cu lu fuoco ardente . Quanno le chiesi lu come e lu quando donna pecche’ li paghi tanti tormenti? Lei mi rispose con amaro pianto ” Nu l’ aggio fatta la’ more contenta”.
(anche questa recitata da mia madre, mi ricorda un po’ l’incontro tra Dante e Francesca da Rimini nel V canto dell’ Inferno).

” La sciorta” (ascoltata ad Acciaroli dal sig.re Giuseppe Amendola). L’ isolamento territoriale del Cilento nei tempi antichi e meno antichi ha causato una visione fatalistica della vita.
” Vidi la Sciorta mia mmiezzo al mare, sopra un duro scoglio che piangeva; e tanti ri lu pianto e lacrimare che pure i pesci lacrimar faceva. Costretta fui ri l’ addummannari, tanta del singhiozzare non rispondeva: “Fortuna, perché piangi a sta maniera?” ” Io so’ la Sciorta tua ” par che diceva.

” Torna priesto!” (ascoltata a San Giovanni dalla sig.ra Angelina Radano). La lontananza della persona cara e’ causa di dolore e l’ attesa del ritorno diventa ansiosa.
“Quanno partisti tu amore mio, stretti tri juorni e nun potia parlari; pe’ l’ aria lu mannai nu suspiro, recenno: “quanno tornerai amore mio?” Te preo pe pietati torna prirsto, si vuoi consula’ stu cori afflitto.

” La luna fa lu giro e…vui rurmiti” . Un amore non corrisposto. Un amante che aspetta la risposta dalla donna amata , ma lei dorme.
Bella mia , ti si curcata, la luna fa li giri e vui rurmiti.
Porte e fenestre, io veo ‘nserrate; canta lu vostri amante e nun aprite.
Apritele nu poco, pe pietate: nun me ne fate quanta vuie vulite. Si parole r’ amore nun sussurrate, m’ arrabbaria lu core chi m’ ha trarito.

…la voce trema, una lacrima brilla come una piccola stella nell’occhio eterno d’anima della prof.ssa Rosa Pinto. Provo anche io a leggere qualche stornello dal libro che ha preso dalla biblioteca, e mi pare ci raggiunga al tavolo anche un’altra figura a me nota. Ma sì, quello è mio nonno Gaetano Positano, un pezzo d’uomo che riempe una stanza. Si è accomodato ngoppa u’ scanno re legno re noce. Recita i suoi stornelli e suona le castagnole intagliate da lui stesso “e nzonghete nzo! A sai longa a canzone one’ ! Ngoppa a montagna re Novi nge stanno lupi e lepri, re notte veneno a gruppi e cantano…uuuuuuuu! Uuuuuuu! Me pari puri tu na lupa one’. E Nzoghete , nzo . A sai longa a canzone! ” Nonno , ma tu li hai visti davvero i lupi?”
“N’ aggiu ncuntrati re lupi mannari ! E tengo u fucile. I lupi se mangiano i pecore, non se fanno scorge i lupi, one’ …i lupi se fanno solo sente …cantano quann esce a luna chiena. Cantano ra coppa a monte Scuro . Uuuuuuuu! Uuuuuuuu!”


Fotografia Archivio museo della civiltà contadina di Montecorice per gentile concessione

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