29 Marzo 2024

dal Manoscritto di Alfonso Leonzio Fortunato – Rubrica L’Angolo Letterario

Racconto tratto dal manoscritto di Alfonso Leonzio Fortunato di prossima pubblicazione. Il libro racconta di un uomo vissuto tra gli anni 20 e gli anni 70 che con i suoi “poteri magici” ammaliava la gente. Aveva appreso la sua arte durante il periodo trascorso in America. Visitava i paesi marinari e i borghi dell’entroterra, rispettato e benvoluto da tutti.

Zi Peppe …

Le sollecitazioni inattese mi spingono in questa avventura “letteraria” che narra vecchi aneddoti e mi sprona alla ricerca di una utopia. È la storia di un uomo dotato di inventiva, memoria storica per la sua comunità. Un vero e proprio talento dell’arte dell’arrangiarsi.

Le poche e semplici case sembravano incatenate tra loro, le ultime erano in bilico su una roccia inaccessibile. Così appariva il paesino di zi Peppe, sdraiato su una collina scoscesa, immerso nella natura selvaggia che guardava il sorgere dell’alba, mentre il morire del tramonto si spegneva nella profondità nel mare. Le acque del fiume cristalline riflettevano i raggi del sole e si gettavano con un canto sempre uguale in un mare verde chiaro. Alquanto pericolosa e stretta la strada si inerpicava fino alla piazzetta dove chiesa e municipio erano vicini, disposti a cerchio come a proteggersi. L’ultima casa era quella di zi Peppe, piccola e modesta con una porta e una finestra che si affacciavano su un pianoro colmo di fiori spontanei; in primavera il vento ne spandeva il profumo intenso in tutta la vallata.
Occhi chiari e penetranti, guance scavate e ricoperte da una barba bianca di chi ormai aveva superato settant’anni. Appariva magro e inclinato in avanti, un vecchietto simpatico dalla voce soave che ammaliava le persone.
Attorno a lui si radunava sempre una folla per ascoltare le sue storie stravaganti: opere d’arte di recitazione, piene di mimica espressiva, da attore consumato che rendevano i racconti ancora più avvincenti. Fatti che alleggerivano tanto il peso della vita e sollevavano l’animo di quel paese isolato. Regalare un po’ di serenità non costava nulla. Chi gli si rivolgeva per un buon matrimonio, chi per sciogliere una fattura e chi per prevedere il futuro.
La sua storia inizia in questo piccolo paese del Sud Italia, dove il caldo tormenta le giornate d’estate e gli inverni trascorrono sempre tutti uguali. Ovunque andasse gli ritornavano in mente caoticamente episodi del passato. Scendendo tra i sassi e folti cespugli della collina, per raggiungere la famiglia di una ragazza che lo aspettava per una faccenda improrogabile, riviveva il tragitto scosceso con i muli sovraccarichi di pietre per caricare “la carcara” di zio Antonio (costruzione dove si scioglievano le pietre in calce); una lunga fila di donne con in testa le fascine e l’odore della calce. “Eh si! Era una festa”, pensava tra sé. I santi che si invocavano in aiuto affinché andasse tutto per il verso giusto. Ma non sempre filava tutto bene e le imprecazioni andavano in fila come una corona di un rosario. Volgendo lo sguardo, notava tra le erbacce rigogliose il vecchio casolare abbandonato e si intravedeva appena un tronco lungo che serviva da sedile. Quante pietre aveva portato da giovane sulle spalle per ultimare la costruzione! A guardarlo gli doleva il cuore. Il tetto era crollato, mancavano le finestre, il muro nudo a pietra aveva buchi dappertutto; ora era un rifugio che i pastori usavano negli spostamenti per riparare le pecore.

Cominciava a imbrunire e, stanco di camminare, aveva deciso di fare una sosta per riposare. Dopo aver con cura accostate le tavole al muro, per chiudere l’entrata della porta ed evitare che entrasse qualche animale, si era disteso usando la giacca come cuscino. Fissando attraverso gli squarci del tetto le stelle brillare, ricordava ancora il passato. Proprio qui il proprietario lo faceva dormire, quando era ragazzo “a padrone”.
A casa sua il cibo non bastava mai per tutti, così, Peppino, all’età di tredici anni, insieme al fratello più grande, era stato mandato “a garzone”. Due bocche in meno da sfamare rappresentavano un piccolo aiuto per la famiglia. Il contratto prevedeva sei lire al mese, un po’ di grano e due vestiti: uno invernale e l’altro estivo. Tano era il nome di questo massaro, un vecchietto benestante e superstizioso. Possedeva una grossa mandria di mucche di cui si occupava anche Peppino tutti i santi giorni, sotto il sole e la pioggia, solo a Natale e a Pasqua gli era concesso di tornare dalla famiglia. Il cibo, sempre scarso, si riduceva spesso a un pezzo di pane duro con cipolle e olive secche, ma il lavoro nella masseria era duro e bisognava arrangiarsi approfittando di qualche frutto. Il periodo migliore era la raccolta delle olive; le confondeva tra l’erba in un posto sicuro e poi le portava nelle profonde tasche dei pantaloni in questo casolare, dove ancora si poteva notare una piccola buca. Al calar della sera, di nascosto dal padrone, disponeva a cerchio le pietre, accendeva il fuoco, le copriva sotto la cenere, e dalla fame le mangiava ancora calde.

Mentre il giorno rischiarava, con l’umidità dell’alba che si faceva sentire su un corpo ormai non più giovane, un intenso brivido lo aveva svegliato. Il corpo indolenzito per il terreno duro su cui aveva dormito, stentava a riprendersi. Allungata una gamba, aveva steso le braccia per prendere calore, dopo una nottata passata all’aperto; e, spostate le tavole dalla porta, sbirciava un pezzetto di cielo visibile osservando le rondini scorrazzare. Tuttavia, un unico pensiero continuava ad occupare la sua mente: una giovane fanciulla, figlia di contadini di un paesino che ormai era quasi vicino. Elena, appena diciotto anni, lo aspettava ansiosa sulla porta. Aveva occhi neri e furbi. Senza dargli neanche il tempo di parlare lo conduceva in un ambiente in fondo alla casa, separato dalla cucina da una tenda di stoffa colorata. In quel locale, con due puntelli che sorreggevano la porta, c’erano due sedie; su un letto giaceva la madre e su una seggiola un pallido omino, il padre. Lo avevano fatto sedere su uno sgabello, dopo aver poggiato sull’altro la gabbia del merlo. <<Zì Pè, aiutateci>> aveva sussurato con flebile voce la madre. <<Noi lavoriamo come matti per vivere>> il singhiozzo la interrompeva. <<Un mascalzone ha approfittato dell’innocenza di nostra figlia, ora è incinta>>.
Zì Peppe pensava: “ora mi chiederanno di farla abortire, ma è già di tre mesi”.
Quasi a leggerlo nei pensieri, la madre precisava: <<Siamo gente devota e peccati non ne vogliamo commettere>> “E cosa posso fare” rifletteva zì Peppe, mentre il mistero si faceva più fitto.

<<Noi sappiamo chi è stato>> annunciava la mamma portando istintivamente l’indice della mano sul naso in segno di silenzio. << È Ginuzzo, il proprietario del negozio di stoffe, mia figlia stava misurando un vestito e lui ne ha approfittato, nel locale non c’era nessuno>> aveva detto tutto d’un fiato, mentre con la testa faceva segno: che guaio! <<È sposato con figli, la moglie di ottima famiglia è pure gelosa!>>
Di quel mistero così aggrovigliato Zi Peppe continuava a capirci sempre meno.
<< Noi sappiamo le vostre capacità. Avete sciolto malocchi e combinato matrimoni, sappiamo che avete fatto fare figli a chi non ne poteva avere. Siete un mago! Dovete fare una magarìa… Sì!.. Noi vi procuriamo una ciocca di capelli e la foto e voi fate il resto>>

La donna insisteva: voleva la magherìa e lo ripeteva con voce chiara e forte.
Zì Peppe, sorpreso, aveva tentato di ribadire: <<…Ma a chi? A Ginuzzo? Ma quello è sposato, ha figli!>>
<<No.., no,.. zi Pè, al figlio! La dovete fare a Nicolino, il figlio di Ginuzzo. Insomma, si deve innamorare di mia figlia>> aveva precisato, aggiungendo convintamente: <<Questo è l’unico modo per uscirne. Se Nicolino si sposa con la nostra Elena, il danno è riparato. Ora vi lasciamo soli perché sappiamo che dovete realizzare il contatto tra mia figlia e lo studente>> aveva concluso facendo segno al marito di seguirla.

Zi Peppe e la ragazza erano rimasti in silenzio; poi, lui l’aveva fatta sedere sul letto e toccando qua e là officiava il rito. Bisognava fare tutto secondo le regole. Pronunciava le parole magiche con lentezza e solennità, alzando la testa oppure abbassando le mani. In fondo, pensava, era povera gente; bisognava aiutarli in qualche modo, gli sembrava giusto trovare un rimedio. Dopo il cerimoniale la madre era rientrata seguita dal marito. Sembrava soddisfatta, il primo passo era fatto, adesso bisognava fare il resto. Zì Peppe, salutando dubbioso lasciava la casa.

Il tempo trascorreva velocemente. Erano passate tre settimane e la preoccupazione cominciava a rivelarsi sul volto di Elena. A piccoli passi, completamente sconsolata, in silenzio avanzava verso zi Peppe, appena ritornato in paese. L’uomo l’aveva osservata lungamente, per farle capire di aver intuito cosa nascondesse, ma aspettava che fosse lei a prendere l’iniziativa; poi, con voce pacata aveva ammonito: << Sappiamo entrambi com’è andata>>.

A zi Peppe non si poteva continuare a dire frottole. Era giunto il momento di raccontare che si frequentavano da tempo, senza che la famiglia sapesse nulla, con Nunzio il garzone di Ginuzzo, ma, nel rendersi conto che la situazione stava precipitando, aveva pensato di incolpare il padrone. Elena aveva cominciato a parlare in modo sommesso,

alternando parole a sospiri e singhiozzi.
<<Ti racconterò tutto zi Pè> aveva esordito guardandolo.<<I genitori di Nunzio combinarono il matrimonio già in fasce con una ragazza, ma lui crescendo non la voleva. Cadere nelle grinfie di quella strega, mai!>> ripeteva sempre. << Intanto, aspettavo che facesse pressione sul padre, per fargli cambiare idea>>
<<Capisco quali erano le tue intenzioni, farvi sorprendere da Ginuzzo, in modo che si potesse scagionare da solo dalle false accuse, e far saltare definitivamente il matrimonio combinato>> aveva riflettuto zi Peppe, aggiungendo:<<Vedo che avete architettato tutto bene! Però adesso dobbiamo completare l’opera, porta a casa una foto di Nunzio e ci vediamo domani>>.

Il giorno successivo era ritornato a casa della ragazza pronto per sbrogliare la situazione. Lo avevano accolto invitandolo a prendere posto sull’altra sedia.
<<Venite, accomodatevi>> lo aveva salutato la madre.
Elena in piedi lo guardava diritto negli occhi fingendo tranquillità. Gli rivolgeva uno sguardo strano che i genitori non riuscivano a capire. Trascorso qualche minuto, zi Peppe informava che la ragazza avrebbe dovuto ripetere insieme a lui il rito. Questo sembrava dar loro una speranza di luce, e gli occhi si erano alzati in cielo come se vedessero per la prima volta. Seguendo le indicazioni e senza dire niente, aveva posato sul tavolo la foto capovolta. Nella stanza stava accadendo qualcosa di strano che i genitori non riuscivano a capire. Posta la foto capovolta in mezzo a due candele accese la invitava a recitare la vecchia formula: <<San Domenico, ti invoco e ti scongiuro trovami il mio marito futuro, se questo lo farai una devota avrai>>.

Nel silenzio, passava la figura del Santo sopra la foto e la mostrava. Il viso della madre ostentava un’espressione prima di sorpresa e poi di perplessità. Elena percepiva le sue mani improvvisamente bagnate di sudore, rimaneva timorosa e incapace di reagire.
Zi Peppe, anticipando la reazione della madre, aveva rassicurato: << Non vi preoccupate, vedo una bella coppia insieme!>>.

Allontanatosi dal tavolo aveva guardato Elena che lo ringraziava con gli occhi. Poco incline a manifestare le proprie emozioni, la madre era assalita da una eccitazione: il cuore batteva più forte, aveva dedicato l’intera vita al bene della figlia, ma questa volta era diverso. La sua prima preoccupazione era stata di sapere cosa le fosse accaduto. Dopo qualche istante si era arresa alle sagge parole dell’uomo che le infondevano fiducia. Adesso, però, quella attesa gradita era lì a portata di mano e presto sarebbe diventata nonna. Zi Peppe raccoglieva le sue cose e si incamminava riflettendo su una nuova vita che si affacciava al mondo.

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